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fonti: Ettore Masina e We News

Due lettere di ETTORE MASINA

Nato a Breno (BS) nel 1928, giornalista, scrittore, fondatore della Rete Radie' Resch, ex parlamentare, pacifista cattolico. Ha scritto vari libri sulle condizioni dei popoli del Sud del mondo.

Come una madre demente che per soccorrere un figlio disgraziato togliesse il pane agli altri (ma non a se stessa!), la comunita' internazionale per aiutare le vittime dello tsunami sta sottraendo ogni aiuto agli altri paesi poveri. Lo denunziano molte ong e lo conferma M. Aelion, responsabile dei progetti regionali del Programma alimentare mondiale, agenzia delle Nazioni Unite: "Il maremoto ha provocato il dirottamento di tutti i fondi verso il Sud Est asiatico, e all'Africa non arriva piu' nemmeno un soldo".

Ho cominciato a conoscere l'Africa quando avevo sei anni: mio padre, ufficiale dei carabinieri, fu trasferito a Bengasi e ci porto' con se'. Era l'inverno del 1934 e da Siracusa viaggiammo per tre giorni e tre notti sul bastimento "Citta' di Trieste", in un mare agitato da una tempesta che rimase negli annali della navigazione. Forse per questo, sbarcare mi sembro' un sogno, subito convalidato dalle palme del Lungomare e dai libici nei loro candidi barracani. Bengasi aveva allora, piu' o meno, venticinquemila abitanti: diciannovemila indigeni, qualche centinaio di indiani, una comunita' ebraica censita a parte e cinquemila "coloniali": funzionari e militari, con le loro famiglie. Molti dei coloniali soffrivano di nostalgia per la Madre Patria e molti altri, invece, erano sensibili soprattutto all'"indennita' per disagiato servizio" e ai privilegi di "razza": il piu' povero dei contadini meridionali, analfabeta e incapace di esprimersi in buon italiano, si sentiva, in Libia, ed era, ben piu' importante di qualunque arabo, fosse pure il piu' colto. Troppo piccolo per comprendere quanto quei privilegi fossero macchiati di sangue, non sapevo che era appena terminata la crudelissima repressione con la quale Graziani aveva schiacciato la resistenza libica; ed erano appena stati chiusi i veri e propri lager di sterminio in cui erano morti, per fame o per malattie, un terzo dei cirenaici. Di quegli anni mi rimane soltanto il ricordo nostalgico delle oasi nei pressi di Derna con le acque limpidissime dei loro uadi, della selvaggia bellezza del Gebel, dell'incanto di Cirene e di Apollonia: monumentali rovine di un giallo arancio sulle rive di un mare violetto; e la meraviglia, venata d'incomprensione, per la vera e propria apartheid che divideva la popolazione libica da quella italiana. Nessun bambino arabo con cui giocare o nelle scuole che noi bambini italiani frequentavamo, i posti "riservati" nei cinema e nei caffe', le cerimonie del Ramadam rozzamente schernite, cosi' le donne sepolte nei grevi mantelli di lana. Passarono molti, molti anni e il mio lavoro di deputato mi riporto' piu' volte in Africa. In Somalia incontrai nel suo bunker Siad Barre, il feroce dittatore somalo sponsorizzato dai socialisti italiani; e ai confini con l'Etiopia, nell'Ogaden, vidi bambini mutilati da mine di fabbricazione nostrana, imparzialmente vendute all'uno e all'altro esercito per una guerra terminata due anni prima. Nel Sudan equatoriale scoprii gli orrori del ventennale conflitto fra islamici e cristiani e animisti. A Dar el Salama ("citta' della pace") visitai una fabbrica alimentare in cui le operaie guadagnavano cinquemila lire la settimana. Nello Zimbabwe, un gruppo di coraggiosi medici italiani si batteva contro il flagello dell'Aids che colpiva un terzo delle gestanti... Vidi, naturalmente, anche cose meravigliose: l'incanto di Zanzibar, antica capitale di un regno di schiavisti, bianca citta' che si sgretola lentamente sotto il sole, la selvaggia magnificenza delle cascate Victoria e lo squallore di Soweto, improvvisamente fiorito di bandiere e di canti perche' Nelson Mandela era stato liberato da poche ore (e gia' preparava, ci confido', un discorso per chiedere ai suoi fratelli di deporre le armi e costruire la pace). Soprattutto incontrai persone - bianche o nere - che, con fatica e coraggio, coltivavano per l'Africa inedite speranze. Il volontariato italiano esprimeva molte di queste persone: penso per tutte ad Annalena Tonelli, scienziata e autentica santa, poi uccisa in Somalia... E' per questo, e non soltanto per la gloria dei suoi tramonti, la bellezza delle sue donne, la grandezza dei suoi artisti inconsapevoli, che amo l'Africa e non riesco ad abituarmi a certe crudeli statistiche e alle tragedie che le sottendono. L'Africa e' l'unico continente del cosiddetto Terzo Mondo che negli ultimi 25 anni e' diventato piu' povero, da tutti i punti di vista, confermando la terribilita' della sua storia. Come dimenticare che e' il continente da cui, due milioni di anni fa, mosse la razza umana per diffondersi su tutta la Terra? Passarono millenni di millenni, poi, trenta [?] secoli fa, uomini armati fecero ritorno a questa Madre universale, ma soltanto per metterla a ferro e fuoco e rapinarla delle sue ricchezze. Da allora la schiavitu' segno' l'Africa indelebilmente: decine di milioni di suoi figli, selezionati fra i piu' vigorosi, le furono violentemente sottratti per trasformare le due Americhe in immense piantagioni e miniere; e quando l'obbrobrio della schiavitu' fu formalmente cancellato, il colonialismo trasformo' gli africani in servi e in soldati, inchiodo' l'economia africana alla servitu' delle monoculture, schiaccio' con ferocia le ribellioni, finche' esse divennero irresistibili. Ammainate le bandiere delle cosiddette Grandi Potenze, il potere, occulto ma quasi totale, rimase nelle mani delle societa' multinazionali, che ancora oggi lo usano senza pieta'. Esse fecero fallire ogni vero progetto di liberte' (come l'Union Minieres, a suo tempo mandante dell'assassinio di Lumumba) o scatenarono guerre che sembrano nazionalistiche o addirittura tribali, ma in realta' servono al possesso di diamanti, di coltan, di uranio e d'oro – e sostengono un fiorente commercio di armi (Un esempio. In Angola, a tre anni dalla fine della guerra, vi sono ancora da bonificare piu' di duemila campi minati: complessivamente 15 milioni di ordigni – la maggior parte di fabbricazione italiana. Se si pensa, nota l'agenzia Misna, che la popolazione angolana e' di dieci milioni di persone, e' in quest'area che si verifica la piu' alta concentrazione al mondo, che rende improduttivo un terzo del paese. L'ex colonia portoghese - commenta la Misna - detiene il terribile record di un amputato ogni 334 abitanti, per un totale di circa settantamila vittime, delle quali ottomila hanno meno di 15 anni! Ai ritmi attuali e' stato calcolato che occorrera' piu' di un secolo per bonificare completamente le aree minate in tutta l'Angola durante il conflitto che tra il 1975 e il 2002 ha provocato oltre mezzo milione di morti...). Raramente i nostri mass-media si degnano di parlare di queste tragedie; eppure nella zona orientale del Congo la guerra (per il coltan e per l'uranio) ha fatto quattro milioni di morti e piu' negli ultimi sette anni e continua; nel Darfur, dal febbraio 2003, due milioni di persone sono state costrette all'esodo dalle loro terre, spesso senza poter seppellire i propri morti, almeno settantamila: apparentemente un conflitto etnico, ma certamente legato anche alla presenza di giacimenti petroliferi. Dall'Uganda alla Costa d'Avorio all'Angola torme di bambini sono arruolati a forza negli eserciti piu' o meno "regolari", piccole vittime di una orrenda follia. Sono devastazioni che minacciano anche le future generazioni perche' distruggono la natura, creando poverta' che fatalmente si riverseranno sui luoghi dove sembra ancora possibile la sopravvivenza. L'esodo – come tutti sappiamo ma cerchiamo di non vedere – è già cominciato, e sono ormai migliaia e migliaia gli autentici eroi delle migrazioni che attraversano deserti e pericoli di ogni sorta per affacciarsi sul Mediterraneo. Il cumulo delle tragedie africane e' tale che il continente sembra avere generato invano grandi leaders come il tanzano Julius Nyerere, il mozambicano Amilcare Cabral, il sudafricano Desmond Tutu o la keniota Wangari Maathai, Nobel per la Pace 2004. Dovunque, in Africa, un dittatore o la casta militare schiacciano una popolazione terrorizzata, la' si muove un capitalismo estero, la cui ferocia e ottusita' sono ancora piu' gravi perche' espressioni di veri e propri centri imperiali. Oggi meta' degli africani (400 milioni di persone) devono sopravvivere con meno di un dollaro al giorno e non hanno accesso all'acqua potabile. Tornano a espandersi malattie come la malaria, la tubercolosi e la "malattia del sonno". In nove paesi africani l'Aids ha abbassato la soglia di speranza di vita sotto i quarant'anni. Gli stati del Continente pagano complessivamente, come interessi per i loro debiti internazionali, 13 miliardi di dollari all'anno quando, secondo l'Unicef, basterebbero 9 miliardi all'anno per salvare la vita a 21 milioni di persone. Il quotidiano spagnolo "El Pais" parla giustamente di "tsunami silenzioso". Incrudelire sulla sorte degli africani per andare al soccorso degli asiatici e' mostruoso.

Non sono fra quelli che si sono commossi perche' la meta' degli italiani che posseggono un telefonino (soprattutto giovani) hanno inviato un euro ciascuno per i soccorsi alle vittime del maremoto. Intanto considero triste che il 50% delle persone alle quali era stato rivolto l'appello, dunque una grande massa, si sia rifiutato persino di schiacciare cinque tasti e di elargire ai miseri una minuscola parte dei soldi spesi ogni giorno per chiacchiere, inutili se non peggio. Ma poi, anche se e' vero che i soldi comunque raccolti sono importanti per aiutare (realmente, spero) qualche popolazione devastata da una nuova miseria, mi turba l'dea che si possano esorcizzare problemi e grida di dolore o di allarme (anche per il nostro futuro) attivando quasi distrattamente un ingranaggio per il dono di una briciola di pane. E' una specie di automatismo tecnologico di un'elemosina fatta per togliersi di torno un molesto accattone. Ma non parlo soltanto degli aiuti privati. Il cerchio dell'egoismo dominante nelle terre del benessere si chiude quando alla pochezza della capacita' di condivisione dei singoli si aggiunge la miserabilita' degli aiuti statali. Ha scritto l'autorevole "The Guardian": "Il governo Usa ha stanziato per le vittime dello tsunami 350 milioni di dollari, e il governo inglese 96 milioni. Gli Stati Uniti. hanno sinora speso 148 miliardi di dollari nella guerra in Iraq, mentre gli inglesi ne hanno speso11,5. La guerra in Iraq dura da 656 giorni. Lo stanziamento Usa per lo tsunami equivale dunque a cio' che essi spendono in un giorno e mezzo in Iraq. Lo stanziamento inglese equivale al prezzo di cinque giorni e mezzo di operazioni belliche". Di piu': i Sette cosiddetti Grandi, riuniti a Londra mentre scrivo, sembra non siano riusciti ad accordarsi sulla cancellazione del debito estero dei paesi colpiti da maremoto (misura gia' di per se' insufficiente) a causa del netto rifiuto del governo americano. Anche la miseria del cosiddetto Terzo Mondo puo' giovare alla gloria di Bush e del suo impero. E l'Italia? L'Italia, invece di onorare gli impegni presi a suo tempo in sede Onu, secondo i quali gli stati dovrebbero destinare alla cooperazione internazionale lo 0,47% del proprio bilancio, offre la desolante realta' di uno scarso 0,11%. Quando Berlusconi e Fini si affacciano agli schermi del grande Circo massmediatico della Bonta' per informarci dei prodigi della solidarieta' italiana, si guardano bene dall'indicare le dimensioni di quella che e' invece sordida avarizia, l'abbandono di grandi sacche di poverta' alle quali avevamo promesso aiuti.

Quel pomeriggio di fine agosto, a Recife, si scateno' un temporale. Che dico? Un nubifragio, un diluvio, un tifone, o quasi. La periferia della metropoli divento' invisibile al di la' dei finestrini del tassi' che ci portava all'aeroporto; sembrava di essere in un acquario, con la differenza che gli acquari sono silenziosi e illuminati mentre qui il maltempo ruggiva, anticipando una nerissima notte. "Gracas a Deus" mormoro' piamente il tassista quando arrivammo al terminal. La violenza del maltempo impediva i decolli, e le sale d'attesa, come succede in quei casi, assunsero rapidamente l'aspetto di un bivacco fumoso. Nonostante la pioggia incrudelisse, continuavano ad arrivare passeggeri, e anche il chiasso andava crescendo. Una folta comitiva di italiani era la maggior fonte di baccano. Guardandoli con antipatia, ci accorgemmo che avevano una caratteristica particolare: non l'aspetto, che era di persone qualunque di varia eta', fra i 30 e i 60, piccola borghesia, non il loro dialetto o accento, che erano quelli di lombardi, di veneti e di toscani, ma il fatto che erano accompagnati da un gruppo di ragazzine, quasi tutte in due pezzi: body e minigonne. Qualcuna aveva gli occhi e le labbra truccate, ma la maggior parte non nascondevano quello che erano: bambine di una decina d'anni o poco piu'. Vestite com'erano, sembravano caricature delle "famose mulatte" del Brasile; ma piu' ricordavano, a me e a Clotilde, le nostre nipotine quando si impossessano degli abiti delle madri e si pavoneggiano davanti a uno specchio. Queste bambine stavano in un gruppetto a parte, e si vedeva che erano annoiate dell'attesa. Di quando in quando un italiano usciva dalla sua cerchia e andava a parlare con qualcuna di loro. Rideva con lei, le carezzava una guancia, le dava qualche festosa pacca sul sedere. La verita' era evidente. Ci venne da vomitare quando ci accorgemmo che qualcuno di quegli allegri turisti si appartava con la "sua" bambina e le parlava con affettuosa serieta', facendole la predica, come usano, prima di partire per un lungo viaggio i papa' o i nonni. Un famoso giornalista brasiliano, Gilberto Dimenstein, che aveva dedicato due approfondite inchieste al problema della prostituzione minorile, mi aveva detto pochi giorni prima. "Le bambine mi hanno raccontato che il 'cliente' italiano, al momento culminante vuole essere chiamato papa'". Finalmente, con la stessa subitaneita' con la quale si era avventato sulla citta', il temporale-diluvio se ne ando', e noi, richiamati dalle incomprensibili voci vellutate delle hostess, marciammo verso i debiti varchi. Perdemmo di vista i nostri connazionali, per grazia di Dio non assistemmo ai loro congedi. Ben presto le luci furono spente nell'aereo, ridotti a ombre i passeggeri. Rivedemmo i pedofili la mattina seguente. Si salutarono garbatamente fra loro, evitando qualsiasi espressione di complicita'. Scendendo alla Malpensa, erano diventati onesti artigiani e piccoli imprenditori, gradevoli persone di tutti i giorni, possibili nostri condomini. Secondo i calcoli degli enti governativi brasiliani, e nonostante i loro sforzi, nove milioni di bambini sono praticamente randagi, nelle strade. Molti vi vivono giorno e notte, sbrigativamente uccisi con tragica frequenza da qualche poliziotto prezzolato dai commercianti infastiditi; o trascinati negli orrendi carceri della Febem, l'ente che dovrebbe garantire quello statuto Onu dei diritti dei bambini che il Brasile ha inserito gia' nel 1990 nella propria Costituzione. Almeno un quarto del ragazzi brasiliani fra i 10 e i 14 anni lavora, sottopagato, in mestieri pesanti e pericolosi, per non dire dei piccoli pushers o manovali del crimine. Due citta' brasiliane, Fortaleza e Recife, sono diventate capitali della pedofilia in America Latina: si calcola che i bambini brasiliani coinvolti nella prostituzione siano cinquecentomila. I "turisti sessuali" che arrivano ogni anno in Brasile, sono valutati in settecentomila; almeno ottantamila sono italiani. La prostituzione infantile brasiliana non e' certamente l'unica del mondo. Tocca milioni di bambini e bambine in varie nazioni (dal Guatemala ai paesi asiatici devastati dallo tsunami a quelli dell'Est europeo), seguendo i confini dell'area della miseria. E' un fenomeno non recente. Ricordo che trent'anni fa, con Giuseppe Fiori, inserimmo in “Gulliver", fortunata rubrica culturale televisiva, un'inchiesta sui postriboli tailandesi; e rammento la faccia disperata di una ragazza riuscita a fuggire da un bordello per "turisti" e a riparare in una organizzazione cattolica: "Ho diciassetta anni e sono stata la' dentro per quattro. Ho calcolato che mi sono passati addosso piu' di cinquemila uomini. Ho schifo del mio corpo". Negli ultimi tempi sembra che in Thailandia la situazione sia un po' migliorata; ma certamente il fenomeno si e' aggravato su scala mondiale, a causa dell'aumento dei flussi turistici.e della proliferazione di agenzie specializzate. V'e' di peggio. Per timore dell'Aids, lo sfruttamento si dirige verso bambini sempre piu' piccoli, ritenuti indenni dalla peste del secolo. Ha detto a Dimenstein un trafficante di carne umana. "Basta che le bambine pesino dai trenta chili in su'". Le responsabilita' italiane in questo autentico genocidio morale e psichico sono cosi' pesanti che un gruppo di organizzazioni non-governative del nostro Paese (Arci, Associazione Aracna, Associazione internazionale "Noi Ragazzi del Mondo", Associazione Modena Terzo Mondo, Associazione sostenitori Fame Zero, Casa della Solidarieta' di Quarrata, Comunita' Internazionale di Capodarco, Emergency, Fondazione Fontana Padova, Gruppo Abele, Libera, Rete Radie' Resch), cui si sono associati enti pubblici e privati (Regione Toscana, Provincia di Modena, Coop Italia) ha deciso di lanciare il prossimo mese una "Campagna contro il turismo sessuale". Si trattera' di lottare contro una psicologia razzista che porta a ritenere meno gravi, meno delittuose, certe realta' soltanto perche' producono sofferenze in luoghi lontani dal nostro Paese e percepiti come "inferiori" dal punto di vista della civilta', a causa della diffusione della miseria; e anche si tratta, mediante il sostegno di alcune realta' gia' esistenti in Brasile, di rendere meno difficile alle piccole prostitute l'allontanamento dalle strade della miseria. Presentato al Forum mondiale di Porto Alegre (luogo adattissimo per un battesimo di speranza) al progetto e' stato garantito ogni appoggio da Lula, che ha ringraziato i promotori con una lettera affettuosa. In Italia, per fortuna, non si parte da zero. La sezione italiana di Ecpat (End Child Prostitution, Pornography And Trafficking - una preziosa organizzazione internazionale fondata nel 1991) ha gia' ottenuto alcuni grandi successi. Con una vasta opera di sensibilizzazione dell'opinione pubblica, e' riuscita a far votare dal Parlamento, nel 1998, una legge, assai severa, "contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia e del turismo sessuale a danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitu'". Nel 2000, poi, ha promosso un Codice di condotta dell'industria turistica italiana, sottoscritto dalla stragrande maggioranza degli operatori. Concentrarsi, adesso, su un solo Paese come il Brasile (in cui anche il turismo "pulito" italiano non soltanto e' presente ma lo e' in grandi numeri), consentira' di illustrare meglio le situazioni, di verificarne la repressione, di dare nuovo impulso e maggiori informazioni, su questa battaglia di civilta'. Chi si lamenta che non e' possibile umanizzare la globalizzazione ha un'opportunita' per ricredersi. Per maggiori informazioni, visitare il sito <www.stopsexualtourism.org>


Nicole Itano, corrispondente per "WeNews", e' una giornalista indipendente che vive a Johannesburg, in Sudafrica; in questi anni si e' recata parecchie volte nella Repubblica democratica del Congo per testimoniare il conflitto.

Una donna viene stuprata da sei soldati, di fronte al marito e ai figli, mentre altri soldati assalgono la sua bambina di tre anni. Una ragazza di 13 anni muore, vomitando sangue, due giorni dopo essere stata brutalmente stuprata da un gruppo di miliziani. Un "peacekeeper" dell'Onu baratta sesso con una donna disperata per due uova. Queste storie orrende non hanno fine, e vengono dal nuovo rapporto di Human Rights Watch (Hrw), come evidenza della tragedia che continua in questo dimenticato angolo d'Africa: una delle piu' grandi crisi umanitarie del mondo e' largamente ignorata dalla comunita' internazionale. Milioni di persone sono morte, disperse, profughe. Decine di migliaia di donne e bambine sono state vittime di aggressioni sessuali. "Vediamo che nelle zone di conflitto lo stupro e' usato sempre di piu' come un'arma da guerra", dice Anneke Van Woudenberg, ricercatrice per Human Rights Watch nella Repubblica democratica del Congo. "Non si tratta di occasionali voglie di sesso dei soldati. Lo stupro sta diventando parte della condotta normale di guerra. In questo senso, il Congo non e' speciale. Cio' che e' particolarmente spaventoso e' la vasta scala su cui questo succede in Congo". Il rapporto di Hrw, rilasciato il 7 marzo, testimonia come i combattenti di ogni gruppo coinvolto nel complicato conflitto in corso in Congo siano colpevoli di violenza sessuale diffusa e come ben poco sia stato fatto per rallentare la violenza o perseguire i responsabili. Lo stupro viene usato per intimidire le comunita' e forzarle alla sottomissione, per punirle del sostegno ad altri gruppi e, nelle parti orientali del Congo dove il conflitto e' guidato da odio razziale, per terrorizzare i membri di altri gruppi etnici. In alcuni casi qui sono stati stuprati anche uomini e ragazzi. Un'assistente umanitaria ha detto che le donne della regione Ituri (Congo dell'est) potrebbero "scrivere un’intera enciclopedia sull'uso della violenza sessuale". Peggio ancora, coloro che sono stati mandati dalla comunita' internazionale a proteggere la gente del Congo hanno non solo fallito nel proteggere le donne, ma hanno contribuito al loro sfruttamento. Negli ultimi mesi, la forza di peacekeeping dell'Onu in Congo, conosciuta con la sigla Monuc, si e' dibattuta con le numerose denunce che accusano il suo personale di coinvolgimento in stupri e prostituzione infantile. "I posti in cui sono accaduti i peggiori episodi di violenze sessuali sono gli stessi da cui abbiamo ricevuto le denunce peggiori sul comportamento dei peacekeepers", testimonia Jane Rasmussen, una delle responsabili del progetto in Congo. "Il fatto e' che le donne sono in una condizione di tale degrado che la cosa appare loro quasi normale. Una ragazza mi ha detto, in lacrime, che almeno quelli del Monuc pagano". In gennaio, l'Onu ha reso pubblici i risultati delle proprie investigazioni al proposito, e pure concludendo che molti casi specifici non potevano essere controllati, ha attestato che "vi e un modulo di sfruttamento sessuale praticato dai peacekeepers che e' del tutto contrario agli standard fissati dal Dipartimento per le operazioni di peacekeeping".

La guerra civile e' terminata ufficialmente, in Congo, circa due anni orsono. Il paese, una nazione vasta quanto l'Europa occidentale, e' anche base per la piu' grande forza di peacekeeping dell'Onu in opera nel mondo. Ma nonostante questa presenza, e l'insediamento di un governo basato sulla condivisione del potere fra le parti nel 2003, un conflitto mortale per quanto su scala ridotta continua, coinvolgendo milizie e piccoli eserciti, specialmente nella regione di Ituri. In dicembre, l'International Rescue Committee, una organizzazione non governativa che si batte per i diritti umani, ha diffuso un proprio studio sul Congo, rilevando che circa 31.000 persone continuano a morire ogni giorno, e la maggior parte di esse sono bambini uccisi da cause correlate alla guerra o dalla denutrizione. In totale, l'organizzazione stima che dall'inizio del conflitto nell'agosto 1998 siano morte quasi quattro milioni di persone. Le violenze sessuali continuano. Il gruppo francese di "Medici senza frontiere", presente nella citta' di Bunia (Ituri) teatro degli scontri piu' recenti, testimonia che 40 fra donne e ragazze ogni settimana cercano aiuto a causa delle violenze subite. Questo avra' fine, dicono a Human Rights Watch, quando gli offensori cominceranno a credere che ci saranno conseguenze per le loro azioni. Ma come il loro rapporto sottolinea, la capacita' del Congo di processare gli accusati di violenze sessuali rimane limitata. Fino a che la volonta' politica in questo senso non aumentera', e non vi sara' un maggior supporto internazionale per il sistema legale locale, ben poche donne congolesi hanno speranza di ottenere giustizia. "Una lezione chiave che abbiamo imparato da queste missioni di peacekeeping e' che raggiungono un grado di successo solo se sono in grado di spezzare la cultura dell'impunita', e di far si' che le persone siano responsabili delle proprie azioni, soprattutto nei casi di stupro e di altri abusi dei diritti umani", dice ancora Anneke Van Woudenberg. Sebbene i gruppi per i diritti umani sostengano che decine di migliaia di donne siano state assalite sessualmente durante gli ultimi sei anni di conflitto, solo una manciata di casi sono arrivati ai tribunali civili locali o a quelli militari. Persino i peacekeepers raramente sono costretti a rispondere della propria condotta, ammette l'Onu. Secondo il diritto internazionale, essi rimangono sotto l'autorita' dei paesi di appartenenza, la maggior parte dei quali ha scarsa volonta' politica di punire i soldati per tali crimini, dice Jane Rasmussen. A Bunia, un tribunale sostenuto da una Commissione Europea, e' riuscito a processare dieci persone per violenza sessuale, ed ha altri nove casi pendenti. Sebbene il numero dei processi sia esiguo, Human Rights Watch cita il caso come un esempio di come il sostegno internazionale possa rafforzare il sistema legale del Congo e, allo stesso tempo, di come sia stato fatto veramente poco: il tribunale esistente a Bunia e' l'unico del genere in tutto il paese. Una cosa importante, dicono le organizzazioni umanitarie, e' che i comandanti militari siano costretti a rispondere per le loro azioni. I tribunali internazionali in Ruanda ed ex Jugoslavia hanno equiparato lo stupro alla tortura, ed hanno condannato i comandanti che hanno incoraggiato la violenza sessuale come colpevoli di crimini di guerra. Fermare la violenza e processare i colpevoli di violazioni dei diritti umani in Congo richiederebbe uno sforzo massiccio ed un coinvolgimento su larga scala della comunita' internazionale che, dicono sempre i gruppi umanitari, ha lasciato da parte il Congo sia a livello di aiuti, sia a livello di informazione. Nel 2004, nota l'International Rescue Committee, il mondo ha speso per il Congo 188 milioni di dollari in aiuti umanitari, una cifra che corrisponde a 3 dollari e 23 centesimi per persona, contro gli 89 dollari per persona impiegati in Sudan, e i 138 per persona impiegati in Iraq l'anno precedente. "Si parla molto di come potremmo sostenere il sistema legale, soprattutto in relazione alla violenza sessuale, conclude Van Woudenberg, E tutti sono d'accordo sul fatto che si tratta di una questione molto importante, ma al gran parlare non stanno seguendo azioni".

* Per maggiori informazioni: Human Rights Watch - "Seeking Justice: The Prosecution of Sexual Violence in the Congo War": www.hrw.org/reports/2005/drc0305/ International Rescue Committee - "Democratic Republic of Congo: 3.8 Million Dead in 6 Year Conflict": www.theirc.org/index.cfm/wwwID/2129 Monuc - Investigation by the Office of Internal Oversight Services into allegations of sexual exploitation and abuse in the United Nations Organization Mission in the Democratic Republic of the Congo: www.monuc.org/downloads/0520055E.pdf