Differences between revisions 249 and 250
Revision 249 as of 2004-11-13 20:54:50
Size: 67029
Editor: anonymous
Comment:
Revision 250 as of 2005-03-14 19:24:55
Size: 67350
Editor: anonymous
Comment:
Deletions are marked like this. Additions are marked like this.
Line 375: Line 375:
Secretary of Health & Human Services Tommy Thompson Secretary of Health & Human Services Tommy Thompson
Line 387: Line 387:
Secretary of Housing & Urban Development Mel Martinez Secretary of Housing & Urban Development Mel Martinez
Line 444: Line 444:
   [http://www.andrewsaluk.com texas holdem] - texas holdem online poker poker |
[http://www.andrewsaluk.com online poker] - empire poker poker online poker |
[http://www.andrewsaluk.com poker] - poker texas holdem empire poker |
[http://www.andrewsaluk.com empire poker] - empire poker poker texas holdem |

È l’11 Giugno 2002 quando, ad ovest di Jenin, viene posata la prima pietra del muro dell’Apartheid. Un progetto di lunga data, teorizzato anni prima dal laburista israeliano Ehud Barak, prende forma proprio qui a Jenin, una delle zone di lotta palestinese più in fermento. Un muro che forse, in un primo momento, poteva essere visto solo come uno strumento di divisione e non di annessione. «Il muro all’origine, è stato proposto dalla sinistra israeliana, dai settori più moderati - racconta padre David Jaeger, esperto di questioni mediorientali - L’idea rispondeva alle esigenze di sicurezza in Israele per fermare gli attentatori e nello stesso tempo il muro doveva demarcare la frontiera tra Israele e Palestina e passare lungo la cosiddetta Linea Verde. L’idea laburista incorporava il riconoscimento del diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente e portava con sé il ritiro dalla maggioranza dei territori occupati».

Ma nel 2002 le cose sono diverse, Ariel Sharon guida lo Stato d’Israele e anche i timidi progetti laburisti vengono travolti. «Il piano - spiega il ministro della Sicurezza interna Uzi Landau - non si propone di tagliare in due Gerusalemme, ma solo di impedire l’ingresso di terroristi palestinesi provenienti da Betlemme e da Ramallah. L’indivisibilità di Gerusalemme e la sovranità di Israele sull’intera città, capitale eterna del popolo ebraico, è fuori discussione». E pure i permessi di passaggio del muro sono chiari nella mente dei suoi ideatori. Ne saranno istituiti tre tipi. Uno, detto «intelligente», permetterà il libero passaggio degli israeliani ma non dei palestinesi, un altro permetterà il veloce ingresso delle truppe dello Stato ebraico, un terzo sarà utilizzato dagli agricoltori israeliani.

Una struttura difensiva, secondo gli israeliani, non un confine geo-politico. Quindi, nessun pregiudizio a possibili negoziati. Ma, commenta il ministro dell’Informazione dell’Anp, Yasser Abed Rabbo, «l’obiettivo degli israeliani è di frantumare i Territori, trasformando la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in altrettante enclaves circondate da “zone cuscinetto” e intensificare la colonizzazione». E i palestinesi non sono gli unici ad opporsi al Muro. Per differenti ragioni, anche i coloni israeliani non sono d’accorso con Sharon. «Quel Muro intende indicare il confine politico di Israele e quello dello Stato palestinese. Uno Stato del terrore che non dovrà mai nascere perchè rappresenterebbe una minaccia mortale per Israele». A parlare a nome degli oltre 220mila coloni che risiedono negli insediamenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, è Benny Lieberman, presidente del Consiglio degli insediamenti di Giu dea e Samaria. Originariamente, secondo la prima mappa del Muro, presentata nel settembre del 2002, la barriera sarebbe dovuta essere lunga in tutto meno di 200 chilometri, ma le proteste dei coloni hanno convinto Sharon a estenderla, per includere in Israele anche gli insediamenti. Nel marzo del 2003, una nuova variazione del percorso include i villaggi di Ariel e Immanuel e prevede l'attraversamento della valle del Giordano.

In un anno, gli israeliani completano la "prima fase" del muro, 145 km che attraversano i distretti nord della West bank, Jenin, Tulkarem e Qalqilya. Una barriera che rinchiude in terra israeliana 210mila palestinesi, un muro che mangia 120 ettari di terra che ora sono definiti "zona di sicurezza". La confisca della terra, la distruzione di edifici e le limitazioni agli spostamenti si stima provocheranno la perdita di circa 6500 posti di lavoro. Secondo ordinanze militari israeliane, tutte le terre ad ovest della "prima fase" sono da considerarsi "zone cuscinetto". Di fatto si tratta di una vera e propria annessione di territorio.

Un esproprio che provoca perplessità anche negli Stati Uniti, i miglior alleati del governo Sharon. Ma il ministro degli Esteri israeliano Silvan Shalom tranquillizza gli umori, spiegando che con gli Usa è successo un «malinteso che deriva da un’insufficiente conoscenza dei particolari del progetto». Il timore di rottura del feeling americano, nasce da un incontro a fine luglio 2003 tra Abu Mazen, numero due dell’Olp e il presidente Bush. In questa occasione, il presidente americano aveva affermato che la costruzione della «recinzione» costituiva un «problema». Ma, alla fine Ariel e George W. «si sono trovati d’accordo su quasi tutto, e su quel poco su cui erano in contrasto hanno convenuto di non convenire». Potere della diplomazia. La costruzione del Muro va avanti e, assicura Sharon, «ogni sforzo sarà fatto per ridurre al minimo le difficoltà che creerà alla popolazione palestinese». Non si sa quale sia la nozione di “minimo” nella testa del premier israeliano.

Risale al 21 ottobre 2003 la prima risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che chiede a Israele di "fermare e smantellare il muro dell'apartheid". L’Onu dichiara testualmente che «quella barriera di sicurezza è contraria alle leggi internazionali» e che Israele deve «porre un termine alla costruzione del muro nei territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme Est, e rimuovere quella parte della barriera già edificata». Il parere dell’Assemblea- 144 i voti a favore (tra cui quelli dell'Unione Europea), 4 i contrari (Usa, Israele, Micronesia, Isole Marshall), 12 le astensioni – non è giuridicamente vincolante, ma ha una valenza simbolica di grande portata. Ma nemmeno così, nessuno dei bulldozer che devastano i villaggi palestinesi ha smesso di lavorare.

L’Assemblea dell’Onu chiede anche che la Corte penale internazionale che ha sede a L’Aja, apra un fascicolo riguardo al «Muro della discordia». Ma le autorità internazionali paiono non preoccupare assolutamente Sharon. Nel febbraio 2004, Israele fa sapere che «non si farà processare dal Tribunale dell’Aja». Non parteciperà alle udienza convocata per il 23 febbraio, non riconoscerà la competenza del foro internazionale a pronunciarsi sulla legalità della barriera perchè si tratta «di una questione che investe il diritto fondamentale all’autodifesa di Israele». Ma nonostante tanta ostentata indifferenza, Sharon teme il responso dei giudici internazionali, e dà avvio a una forte attività diplomatica. E le sue parole convincono Usa, Russia e Unione Europea. I tre giganti, pur criticando il tracciato della barriera, si dichiarano contrari a un intervento della Corte dell’Aja nella vicenda, perchè non esiste una «via giudiziaria» alla pace. Così come, aggiungiamo, non dovrebbe esistere una «via militare» alla pace. Ma forse, la quiete è l’ultima delle cose che interessano ad Ariel Sharon. I suoi convincenti discorsi, insomma, fanno sì che solo 13 Stati, per lo più musulmani, intervengano all’udienza dell’Aja, accanto all’Anp, alla Lega Araba e all’Organizzazione della Conferenza islamica.

E mentre all’Aja si lavora per trovare soluzioni, in Cisgiordania il cemento continua a mangiarsi case e terreni. Il 23 febbraio 2004, le ruspe dell’esercito israeliano iniziano a spianare un’area vicino a Beit Surik, nella Cisgiordania nord-occidentale, da dove partirà il nuovo troncone del «muro», lungo circa 96 chilometri. Per chi non l’avesse capito, «nessuna Corte al mondo potrà mai mettere in discussione il nostro diritto di difesa, del quale la barriera è parte fondamentale», ribadisce Dore Gold, consigliere diplomatico del premier israeliano.

La sentenza della Corte, seppur non vincolante, è perentoria: quel Muro crea danni «ai diritti dei palestinesi e le violazioni derivanti dal suo percorso non possono essere giustificate da alcuna esigenza militare o da richieste relative alla sicurezza nazionale o all’ordine pubblico» d’Israele. Perché il Muro «costituisce una violazione da parte di Israele di diversi obblighi relativi alla legge umanitaria internazionale ed agli strumenti dei diritti umani».

Israele cerca conforto tra gli amici e chiede agli Usa di esercitare il diritto di veto per bloccare in Consiglio di Sicurezza qualsiasi risoluzione Onu sul muro. I palestinesi esultano per la vittoria politica. «Nessuno può imporci questo muro dell'apartheid, il suo smantellamento è ineluttabile: il muro di Berlino è crollato, e il muro di Sharon lo seguirà», queste furono le parole di Yasser Arafat.

Nel luglio 2004, è un altro tribunale a bocciare il Muro. Questa volta, però, è la Corte Suprema israeliana. E Sharon è costretto a fermare i bulldozer. Peccato, solo per trenta chilometri, giusto quelli che i giudici hanno ritenuto inopportuni. Uno spostamento di 30 km di «muro» a nord di Gerusalemme, una bocciatura certamente parziale ma significativa: "Il percorso del muro – nel villaggio di Beit Surik (ndr) - danneggia gravemente gli abitanti e viola i loro diritti, sanciti dalla normativa internazionale. Lo Stato dovrà trovare una soluzione alternativa che dia meno garanzie di sicurezza ma pesi di meno sulla popolazione locale". Considerazioni che potrebbero calzare a pennello anche ai restanti 700 km di muro.

Il 20 luglio 2004, una nuova risoluzione dell'Assemblea Generale dell'Onu (150 voti favorevoli, 6 contrari - tra cui Usa e Israele -, 10 astenuti) chiede ai paesi Onu di "non riconoscere la situazione illegale scaturita dalla costruzione del muro nel territorio palestinese occupato, compreso all'interno e intorno a Gerusalemme". Per Israele è un voto «vergognoso». Per la direzione palestinese è «la decisione più importante per la nostra causa dal 1947». Ma nemmeno questo parere è vincolante, e non c’è da sperare che le orecchie di Sharon vogliano ascoltarlo. Anche se stavolta, nemmeno l’Unione Europea lo ha appoggiato. «Siamo delusi - dice Sharon - per il sostegno massiccio di tutti i Paesi dell’Ue, che non ha tenuto in alcun conto del terrorismo di cui Israele è vittima».

Il ministero della Difesa assicura che la barriera di separazione in Cisgiordania sarà completa entro la fine del 2005. Per questa data, dovrebbe essere sancita l’esclusione di milioni di abitanti dalle terre che hanno sempre coltivato e dalle fonti d’acqua che hanno sempre utilizzato. Dovrebbe essere resa definitiva l’impossibilità per migliaia di studenti di accedere alle scuole e per migliaia di malati di raggiungere un ospedale.

Settecento chilometri che non solo costituiscono una vera e propria violazione del diritto internazionale, ma nemmeno rispettano la "linea verde", il confine armistiziale antecedente alla guerra dei Sei giorni (1967) che separa Israele dalla Cisgiordania. Il progetto del muro penetra in profondità nei Territori, annettendo di fatto il 50% della Cisgiordania. E dà vita a tre nuovi ghetti, oltre a quello già esistente nella Striscia di Gaza, dove 1.3 milioni di persone vivono in 365 km quadrati circondati da filo spinato e muri. Uno a nord-ovest, da Jenin a Qalqilya fino a Ramallah. Qui il muro è già completato e ha annesso ad Israele il 3% della Cisgiordania. Un altro ghetto diventerà Gerusalemme, dove il muro circonderebbe la città santa e le colonie attorno, isolandola dalla Cisgiordania. Infine il ghetto-sud, che comprenderebbe Betlemme e Hebron, compresi i principali luoghi sacri.

Nelle zone di Qalqilya, Tulkarem e Gerusalemme est, il Muro è in cemento, alto 8 metri ed ha una "zona cuscinetto" disseminata di barriere elettriche, telecamere, militari di pattuglia. In altre zone, il Muro consiste in filo spinato, in una barriera elettrica alta tre metri e zone sabbiose per rintracciare le impronte. Ovunque, il Muro è un anacronistico strumento di pace fasulla.

Solo chi vive o ha vissuto dentro un campo profughi può comprendere quanto difficoltosa possa essere la vita di un rifugiato. Come donna palestinese sotto occupazione, nata e cresciuta dentro un campo profughi, non mi sovviene facile parlare della vita, della mia esistenza di donna in un paese occupato da più di cinquant’anni. Da quando sono nata non ho visto nient’altro che il mio campo, esso rappresenta la mia città, il mio villaggio, il cortile ed il mio ospedale. Questo luogo invaso di cemento è tutta la mia vita, tutto mi è stato negato eccetto il campo. In passato trovavo insopportabile essere un abitante del campo: le persone guardano i rifugiati con occhi diversi e riescono a vederci solo come esseri maleducati, senza istruzione e poveri. Il campo è uno spazio molto affollato, le abitazioni sono separate da strade strettissime e se il tuo vicino urla contro sua moglie, o i bambini, puoi udirlo chiaramente e aprendo la porta, o una finestra, puoi spiare la vita che scorre dentro le altre case. Essendo il mio campo il più piccolo dei tre di Betlemme, non è stato fornito di scuole o cliniche ospedaliere, obbligando i suoi abitanti ad usufruire dei servizi offerti negli altri due campi. Tutto questo esiste ancora oggi ma in passato la vita era ancora più dura, per esempio durante l’estate non c’era l’acqua. Adesso, forse puoi immaginare quanto sia difficile la vita di un rifugiato. Il mio campo profughi si trova a nord di Betlemme, vicino alla tomba di Rachele, divenuta da tempo postazione militare israeliana e fonte di grossi problemi per gli abitanti del campo. Ho un fratello ed un cugino che studiano all’università di Gerusalemme, in Abu Dis, un quartiere vicino alla città vecchia, isolato dal muro dell’Apartheid. Per raggiungere i luoghi di studio devono attraversare un check point che il più delle volte trovano chiuso senza una precisa ragione. Così, sono obbligati a trascorrere anche più di tre ore sotto il sole, in attesa che i soldati riaprano il passaggio, decisione che dipende esclusivamente dall’umore del momento. Per non affrontare queste pressioni ho deciso di frequentare l’università di Betlemme evitando l’attraversamento quotidiano del check point. Non pensiamo mai a cosa faremo la settimana prossima, il nostro unico pensiero è cosa potrà accederci il minuto successivo. Durante la prima Intifada le donne del campo erano al pari degli uomini. Erano parte attive nella resistenza: i sodati israeliani le arrestavano e le trasportavano alle postazioni militari, erano donne coraggiose. Mia madre mi ha raccontato molte storie di lei e delle altre donne del campo, durante la prima resistenza. Una volta, rientrando dal lavoro un soldato la fermò con l’intenzione di arrestarla e lei riuscì a scappare. Ricordo di me e delle mie amiche, al ritorno da scuola, mentre tentavamo di nasconderci dai soldati che sparavano gas lacrimogeni e vidi alcune donne aiutare i ragazzi a nascondersi ed altre lanciare pietre. Eravamo un’unica, grande famiglia e chiunque avesse un problema trovava facilmente aiuto. C’era lavoro e i soldati israeliani erano meno duri: ogni mese ammazzavano un solo palestinese! Durante questa seconda Intifada (Al-Aqsa Intifada) tutto è cambiato, in ogni istante potrebbe accadere qualcosa di veramente terribile. Non possiamo vivere senza ascoltare le notizie alla televisione almeno ogni dieci minuti, non possiamo vivere senza versare lacrime. Nel nostro campo il 70% della popolazione è senza lavoro, molti dei nostri giovani sono rinchiusi nelle carceri israeliane, molti degli abitanti sono feriti e/o invalidi. Molti ragazzi lasciano la scuola per cercare un lavoro, altri siedono sulla strada aspettando due spiccioli dalla famiglia, altri approdano all’università per svagare la mente. Alcune famiglie impediscono alle figlie di frequentare la scuola superiore o l’università e non è raro trovare ragazze sedicenni già sposate. Tuttavia non possiamo dimenticare che il campo ha partecipato attivatamene alla prima resistenza e continua a sfidare e a resistere sotto l’occupazione. La resistenza contro la forza occupante è un diritto dei palestinesi e se guardiamo la storia della Palestina troviamo che i profughi hanno perso le loro terre, la libertà e la possibilità di avere una vita dignitosa e per queste ragioni continuano ancora ad oggi a combattere l’occupazione. Nel campo puoi vedere molte persone che parlano del diritto al ritorno o della situazione nella quale versa la Palestina. La Palestina intera significa molto per noi: nella nostra cultura la terra è l’elemento più importante per la nostra vita. Noi rivogliamo tutta la Palestina (‘48 e ‘67) e con essa Gerusalemme. In quanto rifugiata ho diritto a ritornare al villaggio dal quale i soldati israeliani obbligarono la mia famiglia a partire, disperdendola nel mondo. Ho due zii che non ho mai visto e che conosco solo per telefono. Io chiedo di poter tornare al mio villaggio. Non posso accontentarmi di ricevere solo una parte di tutta la Palestina storica. Questa terra è per i palestinesi e non per gli israeliani che, arrivando da ogni parte del mondo, sono convinti di possedere il diritto a vivere su questa regione, considerandola come la loro nazione! Continuo a sperare e a chiedere giustizia e a lottare per una giusta pace. E’ possibile che il mondo sia convinto che i palestinesi odino la vita in sè? Eppure ne avrebbero tutte le ragioni: l’occupazione israeliana, nessuna giustizia, punizioni e torture nella città e nei campi, coprifuoco per giorni e notti, demolizione di case, padri e fratelli rinchiusi nelle carceri israeliane, divieto di visitare parenti che abitano in altre città, è questa vita? Udire gli spari per dieci ore consecutive e la mattina tornare alla vita normale: scuola, lavoro, università. Obbligati ad ascoltare il fragore dei bombardamenti e a respirare l’odore di morte. Quelle sono state le sensazioni che ci hanno accompagnato per più di sei mesi, quando i carri armati, i blindati ed i bulldozer, assediarono la città. Quando si ritirarono cominciò una nuova vita ma la sensazione che tutto potesse ricominciare non ci ha più abbandonato. Addormentarci senza il rumore dell’occupazione è il nostro sogno. Io prego per una giusta pace, è importante per la nostra gente e per i nostri bambini, soffocati dall’occupazione. Ho un sogno: vedere i bambini palestinesi vivere una vita normale, senza paura, senza depressioni e stanchezze. Vorrei vederci riconosciuto il diritto alla vita, allo studio, al divertimento ed infine sentirmi al sicuro. Ho qualcosa da dire al popolo europeo: non guardare solo ad un lato della questione palestinese, prova a conoscerci meglio ed aiutaci a cambiare questa dura realtà.

  • BOGOTÀ. La mappa della Colombia è punteggiata dalle zone della guerriglia come una fetta di gorgonzola dalle macchie verdeblù del penicillium. Macchie piccole nelle grandi città e nelle zone dominate dai paramilitari. Macchie grandi nei territori più selvaggi come il Caguan, il Cauca, l’Arauca, il Putumayo e l’Amazzonia, dove esita a metter piede il neghittoso esercito colombiano. «Corrotto, male armato, poco motivato e assolutamente impreparato alla lotta antiguerriglia», come lo definisce un diplomatico europeo.

In Colombia la guerra civile dura da più di quarant’anni. A combattere contro l’esercito governativo sono rimasti due eserciti guerriglieri, le Farc e l’Eln. Tutte e due le formazioni sono state pesantemente condannate da Human Rights Watch per le loro azioni contrarie al Diritto internazionale umanitario (sequestri, uccisioni di ostaggi, uso di armi indiscriminate contro la popolazione civile, come le famigerate pipas: bombole da gas piene di esplosivo e pezzi di ferro). Ideologicamente, sono culi di pietra ancorati al marxismo-leninismo più ortodosso. Sembrano la signora in coma di Goodbye Lenin: nessuno ha ancora detto loro che è caduto il Muro. Il terzo attore armato sono le Auc (Autodefensas unidas de Colombia), paramilitari che si sono macchiati – tra l’indifferenza e spesso con la complicità dell’esercito nazionale – di crimini efferati: villaggi interi massacrati a colpi di mitragliatrice, uomini, donne e bambini fatti fuori sulla soglia di casa, campesinos appesi per la gola a ganci da macellaio e fatti a pezzi con la motosega. Una specialità in cui si è distinto particolarmente il nostro concittadino Carmine Mancuso, figlio di italiani, possidente e ricercato dagli Stati Uniti per crimini di guerra e traffico di droga (illuminante, in proposito, il recentissimo Colombia, paese dell’eccesso, di Guido Piccoli, Feltrinelli). A parte i due grandi eserciti e i gruppi paramilitari, le montagne e le selve di questo Paese bello e affascinante sono popolate da tutta una serie di gruppuscoli, di bande, di disertori dell’esercito, di semplici grassatori: un po’ come negli Stati Uniti dell’Ottocento, dopo la fine della Guerra d’indipendenza, quando bande di sudisti sbandati sopravvivevano portando avanti piccole guerre personali, attaccando le colonne delle Giacche blu, rubando le mucche agli allevatori, rapinando i treni.

UN COMANDANTE CON LA FACCIA DI SEAN CONNERY. Uno di questi gruppuscoli sta nascosto in un accampamento sulle montagne del Cauca, ai confini con Tierradentro, territorio magico in cui gli sciamani, di notte, masticano coca sulle rive dei ruscelli illuminati dalla luna. Il loro comandante – chiamiamolo Comandante Ramón – ha cinquant’anni, la barba brizzolata, una Beretta bifilare alla cintura e una vaga somiglianza con Sean Connery. L’uniforme è approssimativa, pantaloni mimetici, maglietta nera, cinturone e cappelluccio mimetico floscio. Anche il campo è approssimativo, disordinato, mal tenuto: ben diverso dai campi delle Farc, il gruppo che controlla questa zona, ricco, rigoroso, disciplinato. Qui c’è in giro un’aria rilassata, approssimativa, casuale, un po’ zingaresca. Il comandante ci accoglie con calore perfino eccessivo: «Benvenuti, benvenuti! Prego, sedetevi. Muchachos! Caffè!». Due guerrigliere portano una pentola annerita. È approssimativo anche il caffè: tiepido, acquoso, sa di fumo. Evidentemente è vecchio, riscaldato frettolosamente sul fuoco. Niente a che fare col caffè nero, ricco e bollente che offrono le Farc. Ma si sa: il diavolo è nei particolari. Dal villaggio arrivano due ragazzini, arrancando con fatica su per il sentiero scosceso che porta all’accampamento. Sono carichi come muli: un sacco di riso e un sacco di patate. La loro cena. La ragazzina, Angela, ha sedici anni e un paio d’occhi bellissimi. Ramón è un guerrigliero di matrice marxista-leninista, nasce come tanti da quel crogiolo di ribellismo, ingiustizia sociale e voglia di risolvere le situazioni con la pistola alla mano che è sempre stata tipica della Colombia (tuttora, in campagna elettorale, se c’è un avversario troppo scomodo gli si manda il sicario; e solo dagli anni Trenta è proibito entrare in Parlamento con le armi: fino ad allora la discussione che finiva a colpi di pistola tra i banchi dell’emiciclo era un classico del dibattito parlamentare). Ha partecipato a un paio di imprese importanti, ha rapito il fratello di un presidente della repubblica, è stato in carcere ed è stato liberato per intercessione di Fidel Castro, che ha fatto da tramite tra la sua banda e il governo colombiano. E ora se ne sta acquattato con una quindicina di ragazzini sul fianco di una montagna, due case con le pareti di argilla cruda e piccole tende nascoste in un bananeto. Il fianco della montagna di fronte è completamente bruciato: per vedere da lontano chi arriva.

LA SCHIAVITU' DI CARATTERE EPISTEMOLOGICO. Ci sediamo su una panchina di bambù e il Comandante Ramon comincia a concionare: «Qual è la differenza tra noi e le Farc? Che loro sono un esercito, noi un movimento politico-militare. Siamo una necessità storica! E perché una necessità storica? Perché il popolo colombiano ormai ha perso la speranza! E perché ha perso la speranza? Prima di tutto ripassiamo le nostre basi ideologiche. Pablo! Chiama i muchachos, che sentano tutti, è fondamentale!». Arrivano, l’uno dopo l’altro, i muchachos: una quindicina di ragazzi e ragazze tra i tredici e i vent’anni. Sono un gruppuscolo un po’ scaciato: uniformi abborracciate e approssimative, jeans e magliette sotto le bandoliere sdrucite piene di bombe a mano, poche mimetiche complete, berrettini di vari colori (uno col marchio Nike). I coltelli sono arrugginiti e male affilati, le armi varie: Kalashnikov, qualche Galil, un fucile a pompa, una doppietta col calcio segato, un Uzi e perfino un vecchio Fal di fabbricazione europea. I mitragliatori sono sporchi e impolverati, i calci incrostati di fango. E sarebbero guerriglieri, questi? Si accoccolano tutti intorno al Capo, e lo ascoltano con occhi rapiti mentre lui sproloquia: «Dicevamo, il popolo colombiano ha perso la speranza. E perché ha perso la speranza? Prima di tutto bisogna ricordare cosa diceva Engels, che la libertà è conoscere le necessità. Una società liberata è quella che ha risolto le quattro necessità fondamentali. E quali sono le necessità fondamentali?». Conta sulle dita, fulminando con gli occhi i suoi muchachos: «Primo, la necessità fisica! Bisogna salvare il pianeta! Secondo, la necessità biologica! Bisogna sconfiggere la morte! Terzo, la necessità economica! Bisogna sviluppare produzione, abbondanza e automatizzazione! Quarto, liberarsi dalle schiavitù di carattere epistemologico! Bisogna imparare a sfruttare la conoscenza!». E continua a lungo, mescolando Marx e Pol Pot, Fidel Castro e Adorno, la Terza Internazionale e il riscaldamento globale. Ogni tanto, negli occhi castani un po’ fuori dalle orbite, fa capolino un lampo di follia. Angela dai begli occhi, persa nei sogni dei suoi 16 anni, lo ascolta rapita. Quel guazzabuglio ideologico è il suo nettare. Chissà se la sera, in tenda, ripete in coro coi suoi compagni: «Terzo, la necessità economica! Quarto, la schiavitù di carattere epistemologico!» e si rigirano in bocca quelle parole magicamente incomprensibili come un mantra, quello che li fa sentire eletti. La spinta ideologica in nome della quale poi il Capo li invia a sequestrare i commercianti, a taglieggiare i contadini, a riscuotere la vacuña, il vaccino: il dieci per cento del raccolto, con cui il possidente o il coltivatore possono stare tranquilli tutto l’anno. Dove abbiamo già visto questa specie di Curcio irrancidito, perso in sogni di rivoluzione assieme alla sua piccola compagnia di Peter Pan armati di Kalashnikov? Già: Conrad, Cuore di Tenebra. Ma questo qui è un Kurtz dei poveri, non ha la grandezza tragica («L’orrore! L’orrore!») dell’Uomo dell’Alto Congo, né la maschera di Marlon Brando nell’Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Questo vive sul fianco della montagna tra le nebbie di ideologie confuse, circondato dai suoi cuccioli che lo ammirano e lo temono; e se uno dei cuccioli cercherà di disertare, i suoi compagni lo riacchiapperanno e lo fucileranno senza la minima esitazione. Sono crudeli, i ragazzini.

UNA MOGLIETTINA CICCIOTTELLA E PACIOSA. Arriva Maria Teresa, la ragazza più grande, una paffutella con la faccia paciosa da brava casalinga. Ha i capelli lunghi molto curati, una maglietta nera con la faccia di Che Guevara, stivali di gomma e pantaloni da cavallerizza. Gli si siede al fianco, appoggia il mitra alla panca di bambù e lo prende sottobraccio, in un gesto che rivela un’intimità tranquilla, un po’ ammiratrice e un po’ protettiva. Una brava moglie, che ama il marito e sorveglia paziente che non dica troppe sciocchezze. Finita la lunga concione, Ramón ci invita a visitare il campo: tendine basse nascoste tra i banani e gli alberi della selva. I ragazzini col mitra ci seguono schiamazzando e ridendo, come una scolaresca. È ovvio che fanno una vita noiosa, su queste montagne, e qualsiasi visita li eccita. Katiusha, la cagna dell’accampamento, un po’ dogo argentino e un po’ golden retriever, caracolla tutta esaltata, annusando da uno stivale all’altro, ma senza mai abbaiare. Chissà perché i cani della guerriglia non abbaiano mai? Gli taglieranno le corde vocali? Ramón tiene per mano teneramente Maria Teresa, ci mostra la loro alcova, una tendina bassa tra gli alberi, poi chiede: «Su, una foto insieme alla mia vecchietta. Ma prima copriamole il viso con un paliacate. Io ormai sono bruciato, la mia faccia la conoscono, ma lei deve fare la guerriglia urbana». Le aggiusta teneramente un fazzoletto nero, lei si controlla il trucco in uno specchietto di plastica azzurra e poi si mettono in posa sorridendo, come una coppia di villeggianti di mezz’età sul moscone a Cesenatico. Ramón organizza un’esercitazione. I ragazzi vanno su e giù, fanno finta di rastrellare un villaggio, di ispezionare l’accampamento che conoscono come le loro tasche. Quando il comandante li fa schierare coi fucili puntati, e ordina «Listos?

  • Fuego!» la raffica parte disuguale. «Siamo una formazione di guerriglia urbana, non siamo un esercito», si scusa, «non sono importanti le nostre capacità militari, come per le Farc. Noi siamo soprattutto un gruppo politico». Già. Una necessità storica di carattere epistemologico, direbbe Ramón.

UNA FIGURA COMICA, SE NON FOSSE TRAGICA. «Quelli? Sono un gruppetto di sbandati», commenta un ex comandante dell’M19 che li conosce bene, «ho cercato di discutere con il loro comandante, ma è impossibile. Hanno un’ideologia politica abborracciata, senza nessuna vera elaborazione teorica alla base; un guazzabuglio del tutto incomprensibile. Le Farc li tollerano perché gli sono utili, ogni tanto li utilizzano per fare qualche lavoro sporco, un sequestro o un’esecuzione che non vogliono firmare. Sopravvivono, ma oramai sono al di fuori di qualsiasi logica di lotta politica». E intanto il Comandante Ramón, solitario in cima alla montagna con la sua brava mogliettina rotondetta e la sua corte di ragazzini affascinati dall’ideologia e dal potere delle armi, trascina la vita come un Peter Pan invecchiato, masticando vaghe idee di riscatto sociale, compiendo qualche sequestro, condannato ormai a essere rivoluzionario per sempre, andando verso una vecchiaia senza alternative. Come un archivista del catasto che vede avvicinarsi la pensione. Come un vecchio bullo romagnolo condannato a essere giovanile fino alla morte, a continuare a ballare il liscio e scoccare occhiate assassine alle signore, nonostante i rotoli che strabordano dalla cintura e i peli bianchi che spuntano, assieme alla catena d’oro, dalla camicia spalancata sul petto. Povero Comandante Ramón. Povero Peter Pan invecchiato. Povero Kurtz della mutua. Sarebbe una figura quasi comica, se gli occhi dei ragazzini che lo seguono adoranti non ricordassero che invece è tutta una storia di sangue, di sequestri, di uccisioni e di vite buttate.

  • BOGOTA'. Il Comandante l’hanno beccato mentre comprava la focaccia in una panaderia di Quito, Ecuador. Era assieme alla compagna, Lucero, e alla loro figlia tredicenne. Era irriconoscibile, con quel berretto di panno, quel giubbotto grigio e quell’aria paciosa da piccolo borghese. Gli agenti del Das, la polizia segreta colombiana, gli sono saltati addosso e l’hanno immobilizzato a terra, ma era disarmato. Ha cercato di dichiarare un’identità falsa, ma appena si è visto riconosciuto, ha indossato idealmente la mimetica e, ergendosi in tutto il suo metro e ottantasei, ha gridato: “Sí, soy Simón Trinidad. Viva Simón Bolívar! Viva la lucha de las Fuerzas Revolucionarias de Colombia!”. Dopo una caccia durata anni Simón Trinidad – il “gran borghese” delle Farc, il “banchiere della guerriglia”, o anche El Cheque Simón (“Simón l’Assegno”) – è caduto nelle mani dei servizi segreti colombiani. E con lui una rete fitta fitta di legami e informazioni sui finanziamenti del più grande esercito guerrigliero del mondo.

Simón Trinidad è il nombre de guerra di Ovidio Ricardo Palmera, laurea a Harvard, banchiere, economista, professore universitario, ottima famiglia colombiana, socio dell’esclusivo Club Valledupar, che 17 anni fa aveva abbandonato i prediletti tweed inglesi per indossare la mimetica. Con un M-16 sul tavolo e una Beretta calibro nove alla cintura ha amministrato per anni i beni delle Farc, le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia: il più grande, solido e ben armato esercito guerrigliero del mondo. La Colombia è una terra lacerata. Un’oligarchia ricchissima e violenta, difesa dalla polizia e da piccoli eserciti privati, guarda ancora al Paese con gli occhi dei suoi antenati spagnoli: una terra di saccheggio. Qui è fiorito il mito di El Dorado (non a caso l’aeroporto di Bogotà si chiama così). Da Cartagena de las Indias sono partiti galeoni e galeoni di barre d’oro destinate al trono di Spagna. E solo dagli anni Trenta il Banco de Colombia ha smesso di fondere gli squisiti gioielli ritrovati nei siti archeologici per farne lingotti.

Il territorio – bellissimo, ricchissimo, selvaggio – è preda di una guerra per bande: alle due formazioni guerrigliere marxiste, le Farc e l’Eln (Ejercito de liberacion nacional), si contrappongono molte formazioni paramilitari, riunite nelle Auc (Autodefensas unidas de Colombia) spesso protette dall’esercito, spesso responsabili di massacri ferocissimi.

Intanto il 45 per cento della popolazione vive di espedienti: piccoli commerci ambulanti, accattonaggio, prostituzione, raccolta di cartoni, furti. Angoscia, umiliazione, fame, desolazione, soprusi della polizia: è ovvio che per tanti ragazzi chiunque offra cibo, uniforme, protezione e senso di identità sia un’offerta irresistibile.

Sono una multinazionale che produce rivoluzione, le Farc. Ovvio: il fatturato di un esercito guerrigliero non viene certificato dalla Price Waterhouse. Ma le stime più attendibili posizionano quello delle Farc tra i 200 e i 350 milioni di dollari: il fatturato di una media multinazionale. Le Farc sono, in effetti, una multinazionale: hanno basi operative in vari Paesi oltre alla Colombia (Venezuela, Brasile, Ecuador, Perú, Cuba) e investimenti diversificati in Sudamerica, Stati Uniti, Europa. Pensate a che mostruosa serie di problemi possa comportare un’azienda con 18 mila dipendenti (e varie migliaia di consulenti esterni tra fiancheggiatori, informatori e poliziotti doppiogiochisti) che ha dichiarato guerra nel 1964 allo Stato colombiano e il cui obiettivo di mercato è la presa del potere per instaurare, secondo una dichiarazione dello stesso Simón Trinidad: “Uno Stato marxista e leninista, basato sull’uguaglianza e la giustizia sociale”.

Le fonti di finanziamento. Le entrate principali delle Farc vengono fondamentalmente dal commercio di stupefacenti e dai sequestri di persona. Gli stupefacenti sono la cocaina e, in misura molto minore, l’eroina. I guerriglieri dichiarano di non raffinare direttamente la coca e di limitarsi a riscuotere il 10 per cento dai commercianti, ma alla luce del buonsenso e di molte testimonianze dirette queste dichiarazioni appaiono, naturalmente, ben poco credibili.

Il narcotraffico, si stima, apporta circa il 40-45 per cento dei ricavi. Un altro 40-45 per cento viene dal più odioso dei crimini: il sequestro di persona. Circa quattromila persone, attualmente, sono sequestrate in Colombia, e il 60 per cento di esse è nelle mani delle Farc. Vivono in casette sperdute nelle pianure sterminate della Colombia, in capanne nella giungla amazzonica o in tuguri nascosti nelle spaventose comunas delle grandi città. Alcuni vengono tenuti incatenati, altri godono di maggior libertà. Mangiano poco, a volte bevono acqua sporca, spesso sono divorati dalle zanzare, si ammalano di malaria e di dengue (ma i guerriglieri che li sorvegliano fanno più o meno la stessa vita).

La “decima” rivoluzionaria. Un grosso cespite viene anche dalla semplice paura del sequestro: molti possidenti pagano la vacuna, il vaccino. Il 10 per cento delle loro sostanze in cambio della tranquillità (dalle Farc, ma questo non li esime dal rischio di essere sequestrati dall’Eln, dai paramilitari o dalla criminalità comune. Per questo i ricchi scappano in Messico o in Florida).

Un altro 10-20 per cento viene da redditi diversi: fattorie, aziende artigiane, aziende aeronautiche, società di trasporti, aziende di navigazione, operazioni immobiliari e finanziarie effettuate tramite prestanome e banchieri compiacenti. Tutto questo genera un fiume di denaro contante, non facilissimo da reinvestire: nel giugno scorso un battaglione di fanteria scoprì per caso una decina di bidoni metallici sotterrati in una radura nella giungla del Putumayo: contenevano circa 14 milioni di dollari delle Farc – cash, parte pesos colombiani e parte dollari Usa, la valuta in cui vengono pagati i riscatti e la coca. Ufficiali e soldati si divisero fraternamente il bottino, ma fecero l’errore di dare le dimissioni in massa dall’esercito. Il loro comandante si insospettì e bastò un’inchiesta per scoprire cos’era successo. Lo scandalo fu grande, ci furono parecchie condanne: ma chissà quanti ritrovamenti casuali sono rimasti sotto silenzio.

È difficile capire in pieno la complessità di una gestione aziendale che comprende rapporti con le varie mafie, corruzione (o intimidazione) di migliaia di poliziotti, giudici e funzionari, raccolta di informazioni sui ricchi, acquisto e vendita di ostaggi, gestione del personale, lavaggio del denaro, il reclutamento di collaboratori (spesso ancora bambini) disposti a morire, le infinite possibilità di tradimenti interni, il piazzamento di autobombe, le minacce a giornalisti e parlamentari, gli scontri a fuoco con l’esercito a con le formazioni paramilitari che lo fiancheggiano. E poi i trasporti di armi, la sanità, le divise, la logistica: bisogna far arrivare in posti selvaggi e remotissimi tutto l’occorrente, dai lubrificanti per armi al cibo, dai ferri chirurgici alle bende, fino agli assorbenti igienici e agli anticoncezionali per le circa cinquemila guerrigliere, che hanno libertà di far l’amore, ma non di restare incinte.

Nel fondo delle selve più selvagge, nelle zone amazzoniche del Caguan e del Putumayo, le Farc hanno perfino creato centri di ricreazione dotati di piscine, ristoranti, bar e tutti i comfort. Questi posti sono stati oggetto di critiche severe da parte di alcuni componenti dell’esercito guerrigliero, i più duri e puri: i capi si sono rammolliti, dicevano quelli che marciavano e morivano nelle giungle piovose del Chocó o nelle pianure aride del Casanare. La guerriglia sta cambiando, sta entrando troppa gente più interessata ai soldi della cocaina che alla liberazione delle masse. Vedrai che, prima o poi, per soldi qualcuno tradisce.

Tradimento. E Simón Trinidad è stato tradito. Aveva sulla testa un milione di dollari di taglia. Un ex compagno delle Farc ha segnalato la sua presenza a Quito, capitale dell’Ecuador. Il Das (la polizia segreta colombiana), con l’aiuto della Cia, lo ha seguito e fotografato per mesi. Gli agenti lo hanno tallonato da vicino, hanno affittato la casa vicina, hanno perfino organizzato feste e barbecue nella speranza che fosse raggiunto da altri capi dello stato maggiore. Lo hanno seguito fino in clinica, dove pare si stesse curando un cancro alla prostata (malattia diffusa tra la guerriglia? Se ne è parlato anche a proposito del capo dei capi delle Farc, Tirofijo). Alla fine, quando hanno avuto il sospetto che potesse scappare, gli sono saltati addosso e l’hanno blindato.

La cattura è stata un colpo eccezionale. Ma anche l’uomo è eccezionale. Fin dagli anni Sessanta il giovane Ricardo aveva professato idee controcorrente rispetto a quelle del clan dei Palmera, una famiglia dell’oligarchia colombiana molto legata al potere. Una volta che il padre gli aveva affidato la responsabilità di una fazenda, il suo primo atto amministrativo era stato quello di aumentare le paghe ai contadini. I viaggi all’estero e i suoi studi economici avevano rafforzato la sua convinzione che il potere colombiano fosse troppo corrotto e aggressivo per durare a lungo, ma fino a un certo punto cercò di cambiarlo dall’interno: fece carriera in banca e all’università, frequentò feste e club esclusivi senza mai nascondere troppo le sue idee di sinistra. Ma durante gli anni Ottanta – los años de los sicarios, 4 mila sindacalisti e politici di sinistra ammazzati come cani sotto casa da poliziotti e sicari inviati dal governo: una storia completamente ignorata in Italia – il professore cominciò a vedersi cadere attorno, uno dopo l’altro, molti degli amici e dei compagni coi quali sperava di cambiare la politica economica e sociale nel Paese. Così, un giorno, scelse la guerriglia. E la scelse alla grande. Scappò con 30 milioni di pesos del Banco de Comercio e, soprattutto, con gli estratti conto di centinaia di ricchi colombiani, molti dei quali furono poi sequestrati per riscatto, altri semplicemente “vaccinati”: hanno pagato la sicurezza col 10 per cento delle loro ricchezze. Per questo lo chiamavano El cheque Simón.

Borghesia e guerriglia, intreccio inestricabile. “Soldi? Ricardo non è passato alla guerriglia per soldi”, dice un amico, “avrebbe potuto restare dov’era, e ammassare una fortuna. È passato alla guerriglia perché ci credeva”.

“Sèèè

  • Lucero ne aveva quattro di fidanzate, e le chiamava tutte Lucero, per non sbagliarsi”, sibila una gran damazza dal sorriso di squalo, di quelle con l’attico a Miami e il pied-a-terre a Londra, che dettano le mode e le tendenze a Bogotà.

Chissà se è vero o è solo una maldicenza. Ma è buffo come, in questo Paese nel bene e nel male formidabile, ci siano una contiguità e un intreccio inestricabile tra la Bogotà bene, quella dei palazzi del Castillo e dei quartieri esclusivi del Norte, e le sue varie guerriglie. Quasi tutti i ricchi hanno avuto a che fare con qualche comandante guerrigliero, chi ha un amico che si è dato alla macchia, chi è stato a scuola con qualche comandante nei licei esclusivi di Bogotà, di Medellin, di Calì, nelle università prestigiose, o magari ad Harvard. Ed è ovvio che, anche nella guerriglia, a comandare non siano i campesinos semianalfabeti, ma le teste più fine, spesso cresciute nei licei e nelle università borghesi, anche se il capo dei capi, Manuel Marulanda, detto Tirofijo (“colpo sicuro”) – un genio politico e militare – ha solide radici contadine. Anche per questo molti investimenti delle Farc sono in terreni, fincas e haciendas. La terra è il più tradizionale dei beni rifugio.

Le bogotane bene temono la guerriglia e la possibilità di essere rapite, ma ne avvertono anche il fascino. Perfino l’avvocato Óscar Emilio Silva Duque, che ha assunto la difesa di Simón Trinidad, ha un fratello nelle mani delle Farc: un sequestro politico. L’avvocato nega che abbia nulla a che fare con la sua decisione di difendere il comandante guerrigliero.

Simón Trinidad si è comportato bene, con dignità e fierezza di fronte al nemico che l’ha catturato. Ora lo staranno interrogando in qualche segreta della Fiscalia di Bogotá, tra misure di sicurezza eccezionali. Parlerà, la scopolamina non manca in Colombia. In questo momento i capi della Cupola staranno cambiando frettolosamente nomi, nascondigli e coperture, aziende e conti cifrati in Svizzera e nelle banche off-shore. Ma il problema vero sarà sostituire il gran borghese: chissà se ce n’è un altro, nella guerriglia, in grado di amministrare con altrettanta sapienza e lungimiranza un bilancio di centinaia di migliaia di dollari.

  • BOGOTA'. È un sorcio. Un sorcio con gli occhiali. Un piccolo sorcio baffuto che parla quattro lingue e conosce bene la guerriglia colombiana. È un prete cattolico con due figlie gemelle nere come il peccato. È un topo di campagna laureato a Harvard. Ha vissuto almeno tre vite, due delle quali in regalo: la Provvidenza, dice lui. Però, se appena appena si prende la briga di levarsi la pelle del sorcio, l’omino baffuto sorride e sotto sotto scopri Campanellino, che spande intorno a sé come una polverina magica. No: non la classica polvere bianca da tirar su col biglietto da 10 mila pesos. È una polverina multicolore, come le bandiere della pace.

Sociologo, master in Strategie di pacificazione, missionario della Consolata, Leonel Narvaez è uno di quei preti asciugati dalle durezze di terre desolate che non hanno peli sulla lingua nel criticare la Chiesa cattolica apostolica romana per le sue posizioni sulla distribuzione della ricchezza, sulla sessualità, sul suo essere Chiesa dei vescovi invece che Chiesa degli umili e dei perseguitati. Ed è amico personale di Tirofijo, il vecchio guerrigliero che comanda, con mano spietata, le Farc: le Forze armate rivoluzionarie della Colombia.

Un topo, tre deserti. Nella sua vita, ci sono tre deserti frequentati dalla violenza e dalla morte: il deserto del Chalbi tra Sudan e Kenia, infestato dai predoni; il potrero umido del Caguan, dove comandano i guerriglieri delle Farc; il deserto emotivo e morale dei barrios di Bogotà, le fungaie di casette di cartone, forati nudi e tetti di lamiera così simili alle favelas brasiliane, solo molto, molto meno famose.

Il primo deserto di Leonel è stato il Chalbi. Dopo i prati verdi e le mura di Cambridge coperte d’edera, la Consolata lo catapultò tra gli Oromo a occuparsi della fame e della sete. Quattro anni di siccità, quattro anni consecutivi senza veder scendere dal cielo una goccia d’acqua. Viveva con le tribù nomadi, si spostava con loro a dorso di cammello, beveva l’acqua fangosa dei pozzi, resettava alla luce di un’altra latitudine i dogmi ricevuti in seminario. “Per dieci anni ho mangiato solo carne di cammello, sangue di cammello, latte di cammello”, racconta, “a volte, per variare un po’, una mistura di sangue e latte. Facevo la vita degli Oromo, ci spostavamo di continuo. Ho imparato la mobilità degli orizzonti. Ho imparato a liberarmi di tutto il superfluo, di qualsiasi fardello. Ma quante migliaia di miglia di deserto mi sono fatto... Ho ancora il sedere che odora di cammello”.

Gli scappa uno di quei sorrisi timidi e furbi di ragazzino che sa di aver fatto una marachella ma, sostanzialmente, se ne frega. Un bel fardello Leonel lo trovò una notte di buio pesto, nascosto in un intrico di rovi. “Stavo andando con la vecchia Land Rover della missione a Nairobi”, racconta, “ero partito subito dopo la mezzanotte, perché speravo che, col fresco, non crepassero le gomme. Passando vicino a un bush, un cespuglio, sentii un verso straziante, come di un gattino, o un agnellino che stessero per sgozzare. Mi fermai, mi addentrai nell’intrico e trovai due neonate: due gemelle bellissime, nere nere. Capii subito cos’era successo. Secondo i Gabbra, i gemelli portano disgrazia alla tribù. La madre le aveva abbandonate. Ma, perché le iene facessero più fatica a mangiarle, le aveva nascoste tra i rovi, ben protette in due pelli di cammello, avvolte strettamente con lacci di cuoio.”

“Era un dilemma terribile”, continua, “se le avessi salvate avrei rischiato di mandare all’aria cinque anni di lavoro, la tribù mi avrebbe cacciato. Ma la fede e la morale mi imponevano di salvare la vita. Non ci misi molto a decidere. Avevo la macchina piena di cassette per il pane e la frutta. In una cassetta feci una specie di nido col pigiama e la camicia, e via! Sperando che nessuno mi vedesse. Quanto piangevano! Ero angosciato, non sapevo cosa fare. Mi fermai all’alba, in un villaggio a tre ore di strada. Disperato, chiesi se c’era qualche donna che allattava. Per fortuna la trovai. Le piccoline si attaccarono come sanguisughe a quel seno sconosciuto. Poi si calmarono e si addormentarono. Proseguii il viaggio.

Dopo otto ore di piste e di polvere arrivai a un ospedaletto gestito da suore italiane, poco più di una baracca. Un sollievo. “Il primo bagnetto spetta al papà”, mi dissero, sorridendo. Tagliai i lacci di cuoio che stringevano le pelli di cammello. Solo allora scoprii che erano due bambine, tutte sporche di sangue, di grasso e di cacca. Il cordone era ancora attaccato. Le lavai con precauzione, con una spugna. E, mentre le spruzzavo d’acqua, mormorai le parole che avevo imparato a dire in swahili: “Io ti battezzo nel nome del Padre...”. Le battezzai Karina, figlia della notte, e Karena, figlia dell’aurora. Ancora oggi portano i nomi che gli detti quel 28 gennaio del 1983, sotto un’acacia nella savana africana. Hanno vent’anni, e mi chiamano papà”.

Nel deserto del Caguan. Dopo dieci anni di deserto, Leonel ne passò quattro a Harvard. Preso il master in Strategie di pacificazione, la casa madre lo destinò a San Vicente del Caguan, Colombia. Il Caguan è un deserto di verde lussureggiante e umido, completamente dominato dai guerriglieri delle Farc. Qui si coltiva la coca e l’esercito si tiene alla larga. Il lavoro sporco lo fanno i paramilitari che ogni tanto arrivano, macellano gli abitanti di un villaggio sospettati di connivenza con le Farc e poi scappano. Allora arriva la guerriglia, tortura quelli sospettati di connivenza coi paramilitari e poi li butta nel fiume senza budella per evitare che tornino a galla. Che ci fa un sociologo in un posto così?

Ci sono molte cose che Leonel non vuole o non può raccontare. Diciamo che, nel vuoto di potere che c’è tra il governo e gli eserciti ribelli, è importante tenere aperto un filo di comunicazione, qualcuno che, all’occorrenza, possa mediare per la liberazione di un ostaggio, far evacuare un ferito grave o portare proposte di pace. A tre ore di jeep da San Vicente c’è la Macarena, una sierra imprendibile irta di costoni e di fucili che da sempre è la roccaforte delle Farc. Là si nasconde Manuel Marulanda Velez, detto Tirofijo (“colpo sicuro”), il comandante spietato che da quarant’anni i servizi segreti colombiani cercano di uccidere. E alla mensa di Tirofijo, durante i dieci anni passati nel Caguan, Leonel sedeva spesso.

“Tirofijo è un campesino”, dice Leonel, “una persona fondamentalmente onesta, che desidera la pace e l’uguaglianza sociale. Ma che ha dentro anche tanto rancore, un rancore che non ha mai metabolizzato, come un veleno che invade tutta la sua vita. Molti hanno paura di Tirofijo. Ma io di lui ricordo un momento tenero. Anche lui, come me, compie gli anni il 13 maggio. Qualche settimana prima di un compleanno, mi mandò a chiamare. E, per la prima volta, non usò il dispregiativo cura (prete) ma mi chiamò per nome. “Voglio che passiamo il compleanno insieme, Leonel”, mi disse con la sua voce terrosa. “E da te voglio un regalo speciale”. “Che cosa vuole, don Manuel?”. “Un muchacho relleno (“bambino ripieno”)”. “Va bene!”, risposi senza esitare”.

“Il muchacho relleno”, continua Leonel, “è un piatto tipico del Quindìo, la regione di cui sia lui che io siamo originari. È un muscolo della coscia del bue che, riempito con patate, fagioli, cipolle, carote e aromi e cotto per ore, diventa morbidissimo. Lo feci preparare dalle donne della parrocchia e il giorno del compleanno glielo portai. Tirofijo ormai è vecchio, era tanto che non mangiava muchacho relleno. Era commosso nel sentire di nuovo i sapori della nostra infanzia. Così mi mise la mano sulla spalla, poi ci abbracciammo – lui così grande, io così piccino – e ci augurammo “Feliz cumpleaños”. Allora io gli dissi: “Don Manuel, quando lei era un buon cattolico...”. “Come!? Io sono ancora un buon cattolico!”. “Ah, sì? E allora, se lo ricorda cosa si canta il 13 maggio?”. I comandanti in mimetica, seduti alla mensa sotto la grande ceiba frondosa, i mitra appesi allo schienale delle sedie, ci guardavano, ironici. L’omone crudele e temuto cominciò a cantare pian piano, col suo vocione da rospo: “El trece de mayo la Virgen Maria, bajó de los cielos a Cova de Iría...”. Era la canzone della madonna di Fatima. I comandantes si guardarono, stupiti. Di Tirofijo conoscevano soltanto l’ira cupa e gli ordini di morte dati con una voce bassa che non ammetteva repliche: non lo avevano mai sentito cantare. Io sentii quel pizzicorino forte alla radice del naso che precede di poco la commozione”. Ecco. Questa è la polverina magica che sa spargere intorno a sé Leonel Narvaez.

Nel deserto dei barrios. Leonel oggi vive a Bogotá il suo terzo deserto, nei barrios più lontani e desolati della capitale. Robles, La Guerida, Caracolì: le fungaie create dai profughi dove la polizia e lo Stato non si curano di arrivare, e dove la gente, traumatizzata dalla violenza, è arrivata senza niente, e deve sopravvivere. Anche il lavoro da soma in un bordello di quarta categoria sembra il paradiso a una bambina che ha visto fare a pezzi il papà con una sega a nastro. “Assieme a psicologi e attori di teatro, ho deciso di applicare le tecniche di riconciliazione imparate a Harvard.

Così è nata Espere: l’acronimo di Escuelas de Perdón y Reconciliación, ma soprattutto un’esortazione a sperare. Abbiamo formato oltre 500 volontari – psicologi, attori, medici – il cui lavoro si moltiplica in progressione geometrica, come un virus: se tu dai la chiave del perdono a dieci, loro la daranno a cento. Abbiamo raggiunto 10 mila persone in meno di due anni. Shakespeare diceva: “Il rancore è un veleno con cui noi ci intossichiamo nella speranza – sbagliata – che sia l’altro a morire”. Attraverso il gioco, il teatro e la drammatizzazione facciamo rivivere i traumi che sono alla radice del rancore. Una volta imparato a riconoscere il rancore, si impara a gestirlo. Allora è più facile passare alla fase successiva: il perdono. Perché, prima della riconciliazione, è indispensabile il perdono. Il grande problema della Colombia è il rancore che tanti si portano dentro. Persone che hanno visto ammazzare il padre, violentare le sorelle. Si portano dentro una rabbia terribile, che li acceca e li spinge a perpetuare questa catena di violenze che sembra inarrestabile.

I guerriglieri sono pieni di rabbia, e spesso la sublimano in voglia di combattere per il riscatto sociale. Ma a volte si abbandonano a crudeltà ingiustificabili. Ho visto due guerrigliere portare alla moglie di un proprietario terriero, su un piatto, i genitali del marito. Si era rifiutato di pagare la vacuna, il vaccino per la protezione. E mentre la povera donna piangeva, quelle due disgraziate ridevano. Il rancore ti fa dimenticare l’umanità”.

Oggi la Colombia ha lanciato un grande negoziato per far deporre le armi alle formazioni paramilitari (i paracos che per anni – con la complicità e la copertura dell’esercito colombiano – hanno saccheggiato, massacrato e ucciso migliaia di campesinos, sindacalisti e guerriglieri di sinistra, conquistando intere regioni e ovviamente mettendo le mani sui commerci lucrosi della coca e dell’oppio. Anche Espere fa parte di questo tentativo. Ma non è facile insegnare la pace e il perdono a chi è vissuto per anni nella violenza e nei guadagni facili della droga.

“La riconciliazione tra lo Stato e i paramilitari”, dice Leonel, “è un cammino difficile e incerto: ma senza riconciliazione non c’è futuro. Il pericolo è quello di generare impunità. Ma è un rischio da correre, purché si arrivi una riparazione, materiale ma soprattutto simbolica. La difficoltà più grande è l’abbandono della narcomentalità: l’attrazione potente dei soldi facili della coca. E finché i gringos continueranno a chiedere droga, noi poveri continueremo a produrre droga. È difficile solo pensare di perdonare persone che si sono macchiate di crimini orribili, di torture, di massacri, di torture su contadini indifesi. Ma il perdono e la riconciliazione sono esigenze elementari per negoziare la pace. Non si può fermare l’aumento della violenza con l’aumento di nuova violenza. Contro l’irrazionalità della violenza è necessario proporre l’irrazionalità del perdono. E l’unico vero perdono è perdonare l’imperdonabile”.

IN THE SHADOWS OF THE CITY (Taïf al madina)

January 12 (Saturday) 8:30 pm

Directed by Jean Khalil Chamoun France/Lebanon 2000, 35mm, color, 100 min. With Majdi Machmouchi, Ammar Chalak, Christine Choueiri Arabic with English subtitles

To escape the civil war between Christians and Muslims, a family moves from the countryside to Beirut--only to be caught in an equally dangerous situation. The film revisits the decade and a half of civil war in Lebanon that ended in 1990 through the eyes of Rami, following the boy from age twelve to adulthood as his family struggles with unemployment, death, and the disappearance of loved ones. Documentary filmmaker Jean Khalil Chamoun, in his first fiction film, combines archival footage and a verite style to create a harrowing overview of the senseless conflict that left his country in physical and moral tatters. Yet even as he funnels this history through his young protagonist, he invests the shadows of the past with “noble dreams and precious memories.”

In the Shadows of the City’ gennemspiller borgerkrigen i Libanon fra de første israelske missiler blev afsendt mod mål i den sydlige del af landet i 1975 til krigen sluttede i 1990. Uden at tage parti, eller for den sag skyld at identificere konfliktens parter som henholdsvis kristne og muslimer, tegner Jean Khalil Chamoun et såre realistisk billede at livet i en krigszone. Rent tematisk ligger filmen tæt på Ziad Doueiris ‘West Beyrouth’ (vist på NatFilm ‘99), men Chamoun er mindre nostalgisk i sit snit og mere konfronterende i sin stil. Instruktøren, der selv har arbejdet som krigskorrespondent, indrammer sin historie i nyhedsklip, som leverer den historiske og politiske baggrund for historien om den tolvårige Rami, der flytter til Beirut med sin familie. Her får han job som en slags stik-i-rend dreng på en livlig café, ejet af en enke med smag for livets goder. Og her møder hans flere af de figurer, der kommer til at tegne Chamouns karakterdrevne historie - og Ramis eget voksenliv. Den voksne Rami får arbejde som ambulancefører i den ruinhob, der er tilbage af barndommens Beirut. Da han og faderen kidnappes af nogle soldater, slipper han på mirakuløs vis fri, hvorefter han langt om længe tager parti i konflikten og slutter sig til byguerillaen. Udover at tegne et bevægende, tredimensionelt portræt af en mand, der gennemlever krigen uden at miste sin integritet, skal ‘In the Shadows of the City’ også anbefales for sine fint afrundede og sammensatte kvindeportrætter.

He mixed archived images and fiction. Chamoun paints the portrait of Lebanon that the generations knew as a country in war. The city spectrum isn't a film about the war, but it's a succession of charismatic portraits of men , women, and children in a country in the war. Rami, a twelve years old child, is obliged to leave his village in southern Lebanon under the Israeli army's bombs, and seek shelter in Beirut with his family. His father’s unemployment obliged him to leave school and work in a café. The civil war flared. The assassination of his friend the musician shocks him deeply. Yasmine, his friend, leaves the region. Twelve years later Rami and his father are kidnapped on the front line that divides the city. He escaped and joined the militia where he met Siham, a woman determined to find her husband...

More than 350,000 Palestinian refugees live in Lebanon, 15,000 of them in the refugee camp of Shatila in Beirut. Through the eyes of two children who live in this camp, Issa and Farah, this documentary explores the determination to keep family and dreams thriving in a landscape that has been sculpted by war, poverty, grief and displacement.

Issa, a little boy who lives with his grandfather, sustained severe injuries when he was hit by a speeding car and has trouble learning in school. Farah lives with her parents and two sisters. The children?s memories and history are shaped by the violence that surrounds them. Both have lost family in the massacres and attacks that followed the 1948 Diaspora and the 1982 invasion of Lebanon by Israel. An aunt was decapitated, an uncle shot ? every family and friend they know has lost someone to the violence.

The filmmaker gives Issa and Farah a small video camera to film their lives and learn how they see their own world. Both children start asking their elders how they felt about leaving Palestine. When queried about what he wants to tell the new generation of Palestinians, an old man asks that Palestine must never be forgotten. ?Promise me that,? he tells the children.

The poverty of Shatila offers little escape. Farah?s mother says that when her children tell her their dreams she feels ?awkward and afraid to shock them with the truth,? and wonders about the kind of future that lies ahead. Yet both children inspire viewers with their ability to keep their hearts and minds open. Farah tells a nursery class, ?Imagining is the main thing, even if you only draw a bird.? And Issa has a wonderful dream where he is a prince.

While the focus is on the lives of children, this documentary is not suitable for younger children. It is appropriate for mature young adults, and university and community audiences interested in learning about the Israeli-Palestinian conflict, life in the refugee camps, and the lasting effects of war.

Hello alissandro I am fine , busy with the school , I am finishing the subjectes with my students , and preparing for the final examination , and I am looking and waiting the summer holiday , because I am tired from teaching , any way it is really nice to hear form you , and to know that you are starting to study arabic , it is really wonderful, I hope you will be good in arabic , I also know arabic is not easy but if you like the language you can learn fast , and roby tolled me that you are taking lissones it seemes nice so good luck , and also with your examinations. And to study two months in Damascus , it is good but it is hard if you want to comeback to palestine , so I don’t know what you should do , so I hope you will not have proplemes with this , and for your visiting in November , you are wellcoming any time , maybe we can have a chance to talk more, but I think it will be hard , because of our habites and tradition , ok you asked once about if the girl can travel , or if I can visit italy , well ali you sow mhannad my brother and I am sure you liked his mind and the way of thinking , and as you know he is pflp , but believe me he cant live away from the habites and tradition , even I don’t blame him , but I will tell you something, when mohannad had the chance to go to italy he was very happy and we where talking a lot a bout this with my uncle , and mohannad had the chance to take a girl with him from the camp , and this trip has lotes of both girles and boyes they go from my university so my uncle toled him you can take manar with you , specially my father will not say no because I will be with my brother and you could know what happened ? mohanad sayed no , he cant take me with him , and he talk with a girl from the camp to go with him, I remember this day I was very sad from him , ( he can go with girls ) you know why ? because he is ( MAN ) sorry for all what I say, it is a lot but I really feel sad a bout this ?? Thanks again for youre letter , and good luck with every thing you do in youre life Best wishes from me

  • Manar

hi alessandro, i talked to amira and lucas about the film and none of us have seen it. we're trying to collect documentaries in the office so it would be really wonderful if you could make us a copy. do you have the pengon address? how is work on your documentary going? you must have a lot of footage to go through. not much good news here. the army continues to come to dheisheh almost nightly and have regularly arrested people. it was passover and easter last week so jerusalem was crazy with tourists here for holy days. many american jews walking around waving israeli flags. lots of press came to dheisheh in the past few days to see the refugees reaction to bush. they put ziad on bbc news. alright, i should go back to my piles. (i got through all the ones that were out when you were here but now am working on amira's office) take care and thank you.

josie and i haven't forgotten about the contact for the Canadian Film Festival. It's just been a little crazy lately because i had a big proposal due last week for Ibdaa. I will be back in Ibdaa on friday the 23rd and will hopefully be able to send you the information then.

U.S.A.

governo americano

presidente GeorgewBush

the Cabinet uyybzcfzesxbole Secretary of Agriculture Ann Veneman

Secretary of Commerce Don Evans

Secretary of Defense DonaldRumsfeld

Secretary of Education Rod Paige

Secretary of Energy Spencer Abraham

Secretary of Health & Human Services Tommy Thompson

Secretary of Homeland Security TomRidge

Secretary of State ColinPowell

Secretary of Transportation Norman Mineta

Secretary of Treasury John Snow

Secretary of Veterans Affairs Anthony Principi

Secretary of Housing & Urban Development Mel Martinez

Secretary of Interior GaleNorton

Attorney General John Ashcroft

Secretary of Labor Elaine Chao

consiglieri del presidente

Consigliere Di Sicurezza Nazionale CondoleezzaRice

ISRAELE

governo israeliano

ArielSharon - Prime Minister

(inoltre tiene le comunicazioni, l'alloggiamento e la costruzione, gli affari labor e sociali e le cartelle religiose di affari)

  • YosefLapid - Ministro della Giustizia, and Deputy Prime Minister

    EhudOlmert - Ministro dell'industria e del commercio, and Deputy Prime Minister

    SilvanShalom -Ministro degli affari esteri, and Deputy Prime Minister

    BenyaminElon - Ministro del turismo

    TzachiHanegbi - Ministro della pubblica sicurezza

    YisraelKatz - Ministro dell'agricoltura e dello sviluppo rurale

    AvigdorLieberman - Ministro dei trasporti

    LimorLivnat - Ministro della educazione, cultura e sport

    TzipiLivni - Ministero per l'assorbimento degli immigrati

    ShaulMofaz - Ministro delle difesa

    YehuditNaot - Ministro dell'ambiente

    DanNaveh - Ministro della salute

    BenjaminNetanyahu - Ministro della finanza

    JosephParitzky - Ministro delle infrastrutture nazionali Avraham Poraz - Ministro dell'interno Eliezer Sandberg - Ministero delle scienze e tecconologie Gideon Ezra - Minister without Portfolio Uzi Landau - Minister without Portfolio Natan Sharansky - Minister without Portfolio

[http://www.andrewsaluk.com online poker] - empire poker poker online poker | [http://www.andrewsaluk.com poker] - poker texas holdem empire poker | [http://www.andrewsaluk.com empire poker] - empire poker poker texas holdem |

mace (last edited 2008-06-26 09:53:48 by anonymous)