È l’11 Giugno 2002 quando, ad ovest di Jenin, viene posata la prima pietra del muro dell’Apartheid. Un progetto di lunga data, teorizzato anni prima dal laburista israeliano Ehud Barak, prende forma proprio qui a Jenin, una delle zone di lotta palestinese più in fermento. Un muro che forse, in un primo momento, poteva essere visto solo come uno strumento di divisione e non di annessione. «Il muro all’origine, è stato proposto dalla sinistra israeliana, dai settori più moderati - racconta padre David Jaeger, esperto di questioni mediorientali - L’idea rispondeva alle esigenze di sicurezza in Israele per fermare gli attentatori e nello stesso tempo il muro doveva demarcare la frontiera tra Israele e Palestina e passare lungo la cosiddetta Linea Verde. L’idea laburista incorporava il riconoscimento del diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente e portava con sé il ritiro dalla maggioranza dei territori occupati».

Ma nel 2002 le cose sono diverse, Ariel Sharon guida lo Stato d’Israele e anche i timidi progetti laburisti vengono travolti. «Il piano - spiega il ministro della Sicurezza interna Uzi Landau - non si propone di tagliare in due Gerusalemme, ma solo di impedire l’ingresso di terroristi palestinesi provenienti da Betlemme e da Ramallah. L’indivisibilità di Gerusalemme e la sovranità di Israele sull’intera città, capitale eterna del popolo ebraico, è fuori discussione». E pure i permessi di passaggio del muro sono chiari nella mente dei suoi ideatori. Ne saranno istituiti tre tipi. Uno, detto «intelligente», permetterà il libero passaggio degli israeliani ma non dei palestinesi, un altro permetterà il veloce ingresso delle truppe dello Stato ebraico, un terzo sarà utilizzato dagli agricoltori israeliani.

Una struttura difensiva, secondo gli israeliani, non un confine geo-politico. Quindi, nessun pregiudizio a possibili negoziati. Ma, commenta il ministro dell’Informazione dell’Anp, Yasser Abed Rabbo, «l’obiettivo degli israeliani è di frantumare i Territori, trasformando la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in altrettante enclaves circondate da “zone cuscinetto” e intensificare la colonizzazione». E i palestinesi non sono gli unici ad opporsi al Muro. Per differenti ragioni, anche i coloni israeliani non sono d’accorso con Sharon. «Quel Muro intende indicare il confine politico di Israele e quello dello Stato palestinese. Uno Stato del terrore che non dovrà mai nascere perchè rappresenterebbe una minaccia mortale per Israele». A parlare a nome degli oltre 220mila coloni che risiedono negli insediamenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, è Benny Lieberman, presidente del Consiglio degli insediamenti di Giu dea e Samaria. Originariamente, secondo la prima mappa del Muro, presentata nel settembre del 2002, la barriera sarebbe dovuta essere lunga in tutto meno di 200 chilometri, ma le proteste dei coloni hanno convinto Sharon a estenderla, per includere in Israele anche gli insediamenti. Nel marzo del 2003, una nuova variazione del percorso include i villaggi di Ariel e Immanuel e prevede l'attraversamento della valle del Giordano.

In un anno, gli israeliani completano la "prima fase" del muro, 145 km che attraversano i distretti nord della West bank, Jenin, Tulkarem e Qalqilya. Una barriera che rinchiude in terra israeliana 210mila palestinesi, un muro che mangia 120 ettari di terra che ora sono definiti "zona di sicurezza". La confisca della terra, la distruzione di edifici e le limitazioni agli spostamenti si stima provocheranno la perdita di circa 6500 posti di lavoro. Secondo ordinanze militari israeliane, tutte le terre ad ovest della "prima fase" sono da considerarsi "zone cuscinetto". Di fatto si tratta di una vera e propria annessione di territorio.

Un esproprio che provoca perplessità anche negli Stati Uniti, i miglior alleati del governo Sharon. Ma il ministro degli Esteri israeliano Silvan Shalom tranquillizza gli umori, spiegando che con gli Usa è successo un «malinteso che deriva da un’insufficiente conoscenza dei particolari del progetto». Il timore di rottura del feeling americano, nasce da un incontro a fine luglio 2003 tra Abu Mazen, numero due dell’Olp e il presidente Bush. In questa occasione, il presidente americano aveva affermato che la costruzione della «recinzione» costituiva un «problema». Ma, alla fine Ariel e George W. «si sono trovati d’accordo su quasi tutto, e su quel poco su cui erano in contrasto hanno convenuto di non convenire». Potere della diplomazia. La costruzione del Muro va avanti e, assicura Sharon, «ogni sforzo sarà fatto per ridurre al minimo le difficoltà che creerà alla popolazione palestinese». Non si sa quale sia la nozione di “minimo” nella testa del premier israeliano.

Risale al 21 ottobre 2003 la prima risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che chiede a Israele di "fermare e smantellare il muro dell'apartheid". L’Onu dichiara testualmente che «quella barriera di sicurezza è contraria alle leggi internazionali» e che Israele deve «porre un termine alla costruzione del muro nei territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme Est, e rimuovere quella parte della barriera già edificata». Il parere dell’Assemblea- 144 i voti a favore (tra cui quelli dell'Unione Europea), 4 i contrari (Usa, Israele, Micronesia, Isole Marshall), 12 le astensioni – non è giuridicamente vincolante, ma ha una valenza simbolica di grande portata. Ma nemmeno così, nessuno dei bulldozer che devastano i villaggi palestinesi ha smesso di lavorare.

L’Assemblea dell’Onu chiede anche che la Corte penale internazionale che ha sede a L’Aja, apra un fascicolo riguardo al «Muro della discordia». Ma le autorità internazionali paiono non preoccupare assolutamente Sharon. Nel febbraio 2004, Israele fa sapere che «non si farà processare dal Tribunale dell’Aja». Non parteciperà alle udienza convocata per il 23 febbraio, non riconoscerà la competenza del foro internazionale a pronunciarsi sulla legalità della barriera perchè si tratta «di una questione che investe il diritto fondamentale all’autodifesa di Israele». Ma nonostante tanta ostentata indifferenza, Sharon teme il responso dei giudici internazionali, e dà avvio a una forte attività diplomatica. E le sue parole convincono Usa, Russia e Unione Europea. I tre giganti, pur criticando il tracciato della barriera, si dichiarano contrari a un intervento della Corte dell’Aja nella vicenda, perchè non esiste una «via giudiziaria» alla pace. Così come, aggiungiamo, non dovrebbe esistere una «via militare» alla pace. Ma forse, la quiete è l’ultima delle cose che interessano ad Ariel Sharon. I suoi convincenti discorsi, insomma, fanno sì che solo 13 Stati, per lo più musulmani, intervengano all’udienza dell’Aja, accanto all’Anp, alla Lega Araba e all’Organizzazione della Conferenza islamica.

E mentre all’Aja si lavora per trovare soluzioni, in Cisgiordania il cemento continua a mangiarsi case e terreni. Il 23 febbraio 2004, le ruspe dell’esercito israeliano iniziano a spianare un’area vicino a Beit Surik, nella Cisgiordania nord-occidentale, da dove partirà il nuovo troncone del «muro», lungo circa 96 chilometri. Per chi non l’avesse capito, «nessuna Corte al mondo potrà mai mettere in discussione il nostro diritto di difesa, del quale la barriera è parte fondamentale», ribadisce Dore Gold, consigliere diplomatico del premier israeliano.

La sentenza della Corte, seppur non vincolante, è perentoria: quel Muro crea danni «ai diritti dei palestinesi e le violazioni derivanti dal suo percorso non possono essere giustificate da alcuna esigenza militare o da richieste relative alla sicurezza nazionale o all’ordine pubblico» d’Israele. Perché il Muro «costituisce una violazione da parte di Israele di diversi obblighi relativi alla legge umanitaria internazionale ed agli strumenti dei diritti umani».

Israele cerca conforto tra gli amici e chiede agli Usa di esercitare il diritto di veto per bloccare in Consiglio di Sicurezza qualsiasi risoluzione Onu sul muro. I palestinesi esultano per la vittoria politica. «Nessuno può imporci questo muro dell'apartheid, il suo smantellamento è ineluttabile: il muro di Berlino è crollato, e il muro di Sharon lo seguirà», queste furono le parole di Yasser Arafat.

Nel luglio 2004, è un altro tribunale a bocciare il Muro. Questa volta, però, è la Corte Suprema israeliana. E Sharon è costretto a fermare i bulldozer. Peccato, solo per trenta chilometri, giusto quelli che i giudici hanno ritenuto inopportuni. Uno spostamento di 30 km di «muro» a nord di Gerusalemme, una bocciatura certamente parziale ma significativa: "Il percorso del muro – nel villaggio di Beit Surik (ndr) - danneggia gravemente gli abitanti e viola i loro diritti, sanciti dalla normativa internazionale. Lo Stato dovrà trovare una soluzione alternativa che dia meno garanzie di sicurezza ma pesi di meno sulla popolazione locale". Considerazioni che potrebbero calzare a pennello anche ai restanti 700 km di muro.

Il 20 luglio 2004, una nuova risoluzione dell'Assemblea Generale dell'Onu (150 voti favorevoli, 6 contrari - tra cui Usa e Israele -, 10 astenuti) chiede ai paesi Onu di "non riconoscere la situazione illegale scaturita dalla costruzione del muro nel territorio palestinese occupato, compreso all'interno e intorno a Gerusalemme". Per Israele è un voto «vergognoso». Per la direzione palestinese è «la decisione più importante per la nostra causa dal 1947». Ma nemmeno questo parere è vincolante, e non c’è da sperare che le orecchie di Sharon vogliano ascoltarlo. Anche se stavolta, nemmeno l’Unione Europea lo ha appoggiato. «Siamo delusi - dice Sharon - per il sostegno massiccio di tutti i Paesi dell’Ue, che non ha tenuto in alcun conto del terrorismo di cui Israele è vittima».

Il ministero della Difesa assicura che la barriera di separazione in Cisgiordania sarà completa entro la fine del 2005. Per questa data, dovrebbe essere sancita l’esclusione di milioni di abitanti dalle terre che hanno sempre coltivato e dalle fonti d’acqua che hanno sempre utilizzato. Dovrebbe essere resa definitiva l’impossibilità per migliaia di studenti di accedere alle scuole e per migliaia di malati di raggiungere un ospedale.

Settecento chilometri che non solo costituiscono una vera e propria violazione del diritto internazionale, ma nemmeno rispettano la "linea verde", il confine armistiziale antecedente alla guerra dei Sei giorni (1967) che separa Israele dalla Cisgiordania. Il progetto del muro penetra in profondità nei Territori, annettendo di fatto il 50% della Cisgiordania. E dà vita a tre nuovi ghetti, oltre a quello già esistente nella Striscia di Gaza, dove 1.3 milioni di persone vivono in 365 km quadrati circondati da filo spinato e muri. Uno a nord-ovest, da Jenin a Qalqilya fino a Ramallah. Qui il muro è già completato e ha annesso ad Israele il 3% della Cisgiordania. Un altro ghetto diventerà Gerusalemme, dove il muro circonderebbe la città santa e le colonie attorno, isolandola dalla Cisgiordania. Infine il ghetto-sud, che comprenderebbe Betlemme e Hebron, compresi i principali luoghi sacri.

Nelle zone di Qalqilya, Tulkarem e Gerusalemme est, il Muro è in cemento, alto 8 metri ed ha una "zona cuscinetto" disseminata di barriere elettriche, telecamere, militari di pattuglia. In altre zone, il Muro consiste in filo spinato, in una barriera elettrica alta tre metri e zone sabbiose per rintracciare le impronte. Ovunque, il Muro è un anacronistico strumento di pace fasulla.

Solo chi vive o ha vissuto dentro un campo profughi può comprendere quanto difficoltosa possa essere la vita di un rifugiato. Come donna palestinese sotto occupazione, nata e cresciuta dentro un campo profughi, non mi sovviene facile parlare della vita, della mia esistenza di donna in un paese occupato da più di cinquant’anni. Da quando sono nata non ho visto nient’altro che il mio campo, esso rappresenta la mia città, il mio villaggio, il cortile ed il mio ospedale. Questo luogo invaso di cemento è tutta la mia vita, tutto mi è stato negato eccetto il campo. In passato trovavo insopportabile essere un abitante del campo: le persone guardano i rifugiati con occhi diversi e riescono a vederci solo come esseri maleducati, senza istruzione e poveri. Il campo è uno spazio molto affollato, le abitazioni sono separate da strade strettissime e se il tuo vicino urla contro sua moglie, o i bambini, puoi udirlo chiaramente e aprendo la porta, o una finestra, puoi spiare la vita che scorre dentro le altre case. Essendo il mio campo il più piccolo dei tre di Betlemme, non è stato fornito di scuole o cliniche ospedaliere, obbligando i suoi abitanti ad usufruire dei servizi offerti negli altri due campi. Tutto questo esiste ancora oggi ma in passato la vita era ancora più dura, per esempio durante l’estate non c’era l’acqua. Adesso, forse puoi immaginare quanto sia difficile la vita di un rifugiato. Il mio campo profughi si trova a nord di Betlemme, vicino alla tomba di Rachele, divenuta da tempo postazione militare israeliana e fonte di grossi problemi per gli abitanti del campo. Ho un fratello ed un cugino che studiano all’università di Gerusalemme, in Abu Dis, un quartiere vicino alla città vecchia, isolato dal muro dell’Apartheid. Per raggiungere i luoghi di studio devono attraversare un check point che il più delle volte trovano chiuso senza una precisa ragione. Così, sono obbligati a trascorrere anche più di tre ore sotto il sole, in attesa che i soldati riaprano il passaggio, decisione che dipende esclusivamente dall’umore del momento. Per non affrontare queste pressioni ho deciso di frequentare l’università di Betlemme evitando l’attraversamento quotidiano del check point. Non pensiamo mai a cosa faremo la settimana prossima, il nostro unico pensiero è cosa potrà accederci il minuto successivo. Durante la prima Intifada le donne del campo erano al pari degli uomini. Erano parte attive nella resistenza: i sodati israeliani le arrestavano e le trasportavano alle postazioni militari, erano donne coraggiose. Mia madre mi ha raccontato molte storie di lei e delle altre donne del campo, durante la prima resistenza. Una volta, rientrando dal lavoro un soldato la fermò con l’intenzione di arrestarla e lei riuscì a scappare. Ricordo di me e delle mie amiche, al ritorno da scuola, mentre tentavamo di nasconderci dai soldati che sparavano gas lacrimogeni e vidi alcune donne aiutare i ragazzi a nascondersi ed altre lanciare pietre. Eravamo un’unica, grande famiglia e chiunque avesse un problema trovava facilmente aiuto. C’era lavoro e i soldati israeliani erano meno duri: ogni mese ammazzavano un solo palestinese! Durante questa seconda Intifada (Al-Aqsa Intifada) tutto è cambiato, in ogni istante potrebbe accadere qualcosa di veramente terribile. Non possiamo vivere senza ascoltare le notizie alla televisione almeno ogni dieci minuti, non possiamo vivere senza versare lacrime. Nel nostro campo il 70% della popolazione è senza lavoro, molti dei nostri giovani sono rinchiusi nelle carceri israeliane, molti degli abitanti sono feriti e/o invalidi. Molti ragazzi lasciano la scuola per cercare un lavoro, altri siedono sulla strada aspettando due spiccioli dalla famiglia, altri approdano all’università per svagare la mente. Alcune famiglie impediscono alle figlie di frequentare la scuola superiore o l’università e non è raro trovare ragazze sedicenni già sposate. Tuttavia non possiamo dimenticare che il campo ha partecipato attivatamene alla prima resistenza e continua a sfidare e a resistere sotto l’occupazione. La resistenza contro la forza occupante è un diritto dei palestinesi e se guardiamo la storia della Palestina troviamo che i profughi hanno perso le loro terre, la libertà e la possibilità di avere una vita dignitosa e per queste ragioni continuano ancora ad oggi a combattere l’occupazione. Nel campo puoi vedere molte persone che parlano del diritto al ritorno o della situazione nella quale versa la Palestina. La Palestina intera significa molto per noi: nella nostra cultura la terra è l’elemento più importante per la nostra vita. Noi rivogliamo tutta la Palestina (‘48 e ‘67) e con essa Gerusalemme. In quanto rifugiata ho diritto a ritornare al villaggio dal quale i soldati israeliani obbligarono la mia famiglia a partire, disperdendola nel mondo. Ho due zii che non ho mai visto e che conosco solo per telefono. Io chiedo di poter tornare al mio villaggio. Non posso accontentarmi di ricevere solo una parte di tutta la Palestina storica. Questa terra è per i palestinesi e non per gli israeliani che, arrivando da ogni parte del mondo, sono convinti di possedere il diritto a vivere su questa regione, considerandola come la loro nazione! Continuo a sperare e a chiedere giustizia e a lottare per una giusta pace. E’ possibile che il mondo sia convinto che i palestinesi odino la vita in sè? Eppure ne avrebbero tutte le ragioni: l’occupazione israeliana, nessuna giustizia, punizioni e torture nella città e nei campi, coprifuoco per giorni e notti, demolizione di case, padri e fratelli rinchiusi nelle carceri israeliane, divieto di visitare parenti che abitano in altre città, è questa vita? Udire gli spari per dieci ore consecutive e la mattina tornare alla vita normale: scuola, lavoro, università. Obbligati ad ascoltare il fragore dei bombardamenti e a respirare l’odore di morte. Quelle sono state le sensazioni che ci hanno accompagnato per più di sei mesi, quando i carri armati, i blindati ed i bulldozer, assediarono la città. Quando si ritirarono cominciò una nuova vita ma la sensazione che tutto potesse ricominciare non ci ha più abbandonato. Addormentarci senza il rumore dell’occupazione è il nostro sogno. Io prego per una giusta pace, è importante per la nostra gente e per i nostri bambini, soffocati dall’occupazione. Ho un sogno: vedere i bambini palestinesi vivere una vita normale, senza paura, senza depressioni e stanchezze. Vorrei vederci riconosciuto il diritto alla vita, allo studio, al divertimento ed infine sentirmi al sicuro. Ho qualcosa da dire al popolo europeo: non guardare solo ad un lato della questione palestinese, prova a conoscerci meglio ed aiutaci a cambiare questa dura realtà.

In Colombia la guerra civile dura da più di quarant’anni. A combattere contro l’esercito governativo sono rimasti due eserciti guerriglieri, le Farc e l’Eln. Tutte e due le formazioni sono state pesantemente condannate da Human Rights Watch per le loro azioni contrarie al Diritto internazionale umanitario (sequestri, uccisioni di ostaggi, uso di armi indiscriminate contro la popolazione civile, come le famigerate pipas: bombole da gas piene di esplosivo e pezzi di ferro). Ideologicamente, sono culi di pietra ancorati al marxismo-leninismo più ortodosso. Sembrano la signora in coma di Goodbye Lenin: nessuno ha ancora detto loro che è caduto il Muro. Il terzo attore armato sono le Auc (Autodefensas unidas de Colombia), paramilitari che si sono macchiati – tra l’indifferenza e spesso con la complicità dell’esercito nazionale – di crimini efferati: villaggi interi massacrati a colpi di mitragliatrice, uomini, donne e bambini fatti fuori sulla soglia di casa, campesinos appesi per la gola a ganci da macellaio e fatti a pezzi con la motosega. Una specialità in cui si è distinto particolarmente il nostro concittadino Carmine Mancuso, figlio di italiani, possidente e ricercato dagli Stati Uniti per crimini di guerra e traffico di droga (illuminante, in proposito, il recentissimo Colombia, paese dell’eccesso, di Guido Piccoli, Feltrinelli). A parte i due grandi eserciti e i gruppi paramilitari, le montagne e le selve di questo Paese bello e affascinante sono popolate da tutta una serie di gruppuscoli, di bande, di disertori dell’esercito, di semplici grassatori: un po’ come negli Stati Uniti dell’Ottocento, dopo la fine della Guerra d’indipendenza, quando bande di sudisti sbandati sopravvivevano portando avanti piccole guerre personali, attaccando le colonne delle Giacche blu, rubando le mucche agli allevatori, rapinando i treni.

UN COMANDANTE CON LA FACCIA DI SEAN CONNERY. Uno di questi gruppuscoli sta nascosto in un accampamento sulle montagne del Cauca, ai confini con Tierradentro, territorio magico in cui gli sciamani, di notte, masticano coca sulle rive dei ruscelli illuminati dalla luna. Il loro comandante – chiamiamolo Comandante Ramón – ha cinquant’anni, la barba brizzolata, una Beretta bifilare alla cintura e una vaga somiglianza con Sean Connery. L’uniforme è approssimativa, pantaloni mimetici, maglietta nera, cinturone e cappelluccio mimetico floscio. Anche il campo è approssimativo, disordinato, mal tenuto: ben diverso dai campi delle Farc, il gruppo che controlla questa zona, ricco, rigoroso, disciplinato. Qui c’è in giro un’aria rilassata, approssimativa, casuale, un po’ zingaresca. Il comandante ci accoglie con calore perfino eccessivo: «Benvenuti, benvenuti! Prego, sedetevi. Muchachos! Caffè!». Due guerrigliere portano una pentola annerita. È approssimativo anche il caffè: tiepido, acquoso, sa di fumo. Evidentemente è vecchio, riscaldato frettolosamente sul fuoco. Niente a che fare col caffè nero, ricco e bollente che offrono le Farc. Ma si sa: il diavolo è nei particolari. Dal villaggio arrivano due ragazzini, arrancando con fatica su per il sentiero scosceso che porta all’accampamento. Sono carichi come muli: un sacco di riso e un sacco di patate. La loro cena. La ragazzina, Angela, ha sedici anni e un paio d’occhi bellissimi. Ramón è un guerrigliero di matrice marxista-leninista, nasce come tanti da quel crogiolo di ribellismo, ingiustizia sociale e voglia di risolvere le situazioni con la pistola alla mano che è sempre stata tipica della Colombia (tuttora, in campagna elettorale, se c’è un avversario troppo scomodo gli si manda il sicario; e solo dagli anni Trenta è proibito entrare in Parlamento con le armi: fino ad allora la discussione che finiva a colpi di pistola tra i banchi dell’emiciclo era un classico del dibattito parlamentare). Ha partecipato a un paio di imprese importanti, ha rapito il fratello di un presidente della repubblica, è stato in carcere ed è stato liberato per intercessione di Fidel Castro, che ha fatto da tramite tra la sua banda e il governo colombiano. E ora se ne sta acquattato con una quindicina di ragazzini sul fianco di una montagna, due case con le pareti di argilla cruda e piccole tende nascoste in un bananeto. Il fianco della montagna di fronte è completamente bruciato: per vedere da lontano chi arriva.

LA SCHIAVITU' DI CARATTERE EPISTEMOLOGICO. Ci sediamo su una panchina di bambù e il Comandante Ramon comincia a concionare: «Qual è la differenza tra noi e le Farc? Che loro sono un esercito, noi un movimento politico-militare. Siamo una necessità storica! E perché una necessità storica? Perché il popolo colombiano ormai ha perso la speranza! E perché ha perso la speranza? Prima di tutto ripassiamo le nostre basi ideologiche. Pablo! Chiama i muchachos, che sentano tutti, è fondamentale!». Arrivano, l’uno dopo l’altro, i muchachos: una quindicina di ragazzi e ragazze tra i tredici e i vent’anni. Sono un gruppuscolo un po’ scaciato: uniformi abborracciate e approssimative, jeans e magliette sotto le bandoliere sdrucite piene di bombe a mano, poche mimetiche complete, berrettini di vari colori (uno col marchio Nike). I coltelli sono arrugginiti e male affilati, le armi varie: Kalashnikov, qualche Galil, un fucile a pompa, una doppietta col calcio segato, un Uzi e perfino un vecchio Fal di fabbricazione europea. I mitragliatori sono sporchi e impolverati, i calci incrostati di fango. E sarebbero guerriglieri, questi? Si accoccolano tutti intorno al Capo, e lo ascoltano con occhi rapiti mentre lui sproloquia: «Dicevamo, il popolo colombiano ha perso la speranza. E perché ha perso la speranza? Prima di tutto bisogna ricordare cosa diceva Engels, che la libertà è conoscere le necessità. Una società liberata è quella che ha risolto le quattro necessità fondamentali. E quali sono le necessità fondamentali?». Conta sulle dita, fulminando con gli occhi i suoi muchachos: «Primo, la necessità fisica! Bisogna salvare il pianeta! Secondo, la necessità biologica! Bisogna sconfiggere la morte! Terzo, la necessità economica! Bisogna sviluppare produzione, abbondanza e automatizzazione! Quarto, liberarsi dalle schiavitù di carattere epistemologico! Bisogna imparare a sfruttare la conoscenza!». E continua a lungo, mescolando Marx e Pol Pot, Fidel Castro e Adorno, la Terza Internazionale e il riscaldamento globale. Ogni tanto, negli occhi castani un po’ fuori dalle orbite, fa capolino un lampo di follia. Angela dai begli occhi, persa nei sogni dei suoi 16 anni, lo ascolta rapita. Quel guazzabuglio ideologico è il suo nettare. Chissà se la sera, in tenda, ripete in coro coi suoi compagni: «Terzo, la necessità economica! Quarto, la schiavitù di carattere epistemologico!» e si rigirano in bocca quelle parole magicamente incomprensibili come un mantra, quello che li fa sentire eletti. La spinta ideologica in nome della quale poi il Capo li invia a sequestrare i commercianti, a taglieggiare i contadini, a riscuotere la vacuña, il vaccino: il dieci per cento del raccolto, con cui il possidente o il coltivatore possono stare tranquilli tutto l’anno. Dove abbiamo già visto questa specie di Curcio irrancidito, perso in sogni di rivoluzione assieme alla sua piccola compagnia di Peter Pan armati di Kalashnikov? Già: Conrad, Cuore di Tenebra. Ma questo qui è un Kurtz dei poveri, non ha la grandezza tragica («L’orrore! L’orrore!») dell’Uomo dell’Alto Congo, né la maschera di Marlon Brando nell’Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Questo vive sul fianco della montagna tra le nebbie di ideologie confuse, circondato dai suoi cuccioli che lo ammirano e lo temono; e se uno dei cuccioli cercherà di disertare, i suoi compagni lo riacchiapperanno e lo fucileranno senza la minima esitazione. Sono crudeli, i ragazzini.

UNA MOGLIETTINA CICCIOTTELLA E PACIOSA. Arriva Maria Teresa, la ragazza più grande, una paffutella con la faccia paciosa da brava casalinga. Ha i capelli lunghi molto curati, una maglietta nera con la faccia di Che Guevara, stivali di gomma e pantaloni da cavallerizza. Gli si siede al fianco, appoggia il mitra alla panca di bambù e lo prende sottobraccio, in un gesto che rivela un’intimità tranquilla, un po’ ammiratrice e un po’ protettiva. Una brava moglie, che ama il marito e sorveglia paziente che non dica troppe sciocchezze. Finita la lunga concione, Ramón ci invita a visitare il campo: tendine basse nascoste tra i banani e gli alberi della selva. I ragazzini col mitra ci seguono schiamazzando e ridendo, come una scolaresca. È ovvio che fanno una vita noiosa, su queste montagne, e qualsiasi visita li eccita. Katiusha, la cagna dell’accampamento, un po’ dogo argentino e un po’ golden retriever, caracolla tutta esaltata, annusando da uno stivale all’altro, ma senza mai abbaiare. Chissà perché i cani della guerriglia non abbaiano mai? Gli taglieranno le corde vocali? Ramón tiene per mano teneramente Maria Teresa, ci mostra la loro alcova, una tendina bassa tra gli alberi, poi chiede: «Su, una foto insieme alla mia vecchietta. Ma prima copriamole il viso con un paliacate. Io ormai sono bruciato, la mia faccia la conoscono, ma lei deve fare la guerriglia urbana». Le aggiusta teneramente un fazzoletto nero, lei si controlla il trucco in uno specchietto di plastica azzurra e poi si mettono in posa sorridendo, come una coppia di villeggianti di mezz’età sul moscone a Cesenatico. Ramón organizza un’esercitazione. I ragazzi vanno su e giù, fanno finta di rastrellare un villaggio, di ispezionare l’accampamento che conoscono come le loro tasche. Quando il comandante li fa schierare coi fucili puntati, e ordina «Listos?

UNA FIGURA COMICA, SE NON FOSSE TRAGICA. «Quelli? Sono un gruppetto di sbandati», commenta un ex comandante dell’M19 che li conosce bene, «ho cercato di discutere con il loro comandante, ma è impossibile. Hanno un’ideologia politica abborracciata, senza nessuna vera elaborazione teorica alla base; un guazzabuglio del tutto incomprensibile. Le Farc li tollerano perché gli sono utili, ogni tanto li utilizzano per fare qualche lavoro sporco, un sequestro o un’esecuzione che non vogliono firmare. Sopravvivono, ma oramai sono al di fuori di qualsiasi logica di lotta politica». E intanto il Comandante Ramón, solitario in cima alla montagna con la sua brava mogliettina rotondetta e la sua corte di ragazzini affascinati dall’ideologia e dal potere delle armi, trascina la vita come un Peter Pan invecchiato, masticando vaghe idee di riscatto sociale, compiendo qualche sequestro, condannato ormai a essere rivoluzionario per sempre, andando verso una vecchiaia senza alternative. Come un archivista del catasto che vede avvicinarsi la pensione. Come un vecchio bullo romagnolo condannato a essere giovanile fino alla morte, a continuare a ballare il liscio e scoccare occhiate assassine alle signore, nonostante i rotoli che strabordano dalla cintura e i peli bianchi che spuntano, assieme alla catena d’oro, dalla camicia spalancata sul petto. Povero Comandante Ramón. Povero Peter Pan invecchiato. Povero Kurtz della mutua. Sarebbe una figura quasi comica, se gli occhi dei ragazzini che lo seguono adoranti non ricordassero che invece è tutta una storia di sangue, di sequestri, di uccisioni e di vite buttate.