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Enrico Menduni

Radio Days: sviluppi e potenzialità del mezzo radiofonico

La radio è circondata da una diffusa simpatia. Soprattutto in contrapposizione alla brutta televisione. In radio non ci sono palcoscenici luccicanti per giochi e talk show, non c’è il telecomando, non c’è una famiglia in ascolto sul divano. C’è invece una fruizione di tipo personale. I dati disponibili sull’ascolto radiofonico in Italia permettono alcune considerazioni, su questo mezzo e sui suoi possibili sviluppi.

La radio «fa pensare», «fa lavorare il cervello», è il contenitore naturale della musica classica, della cultura, di un’informazione gratificata dalla notazione «in tempo reale». Echi di questo atteggiamento si possono ritrovare nei commenti della stampa quotidiana, tradizionalmente rispettosa della radio quanto è sprezzante per la televisione, forse anche perché i modesti fatturati pubblicitari della radio non costituiscono una concorrenza pericolosa. Naturalmente non è difficile cogliere dietro a questi ragionamenti le caratteristiche della radio pubblica e in particolare di Radio Tre. Ogni volta che, con zelo degno di miglior causa, i gruppi dirigenti pro tempore della Rai hanno ventilato progetti di chiusura, ridimensionamento o «popolarizzazione» di Radio Tre (con il suo «appiattimento verso il basso») subito si è alzato un fuoco di sbarramento con appelli sui giornali, raccolte di firme, interrogazioni parlamentari.

Un notevole rispetto circonda anche la radio comunitaria, o comunque quella a cui non si riconoscono fini di lucro. Radio Radicale e Radio Popolare sono due esempi di ricorrenti mobilitazioni, anche da parte di chi non ne condivide le opinioni (e magari di chi non le ascolta assiduamente) ma è convinto dell’utilità sociale di queste emittenti. Ricorrenti in questi appelli le espressioni «una voce fuori dal coro», o «controcorrente». L’aggettivo «scomodo», una volta riservato ai divani e poi esteso agli intellettuali (più rispettabili se «scomodi »), è stato esteso anche alle radio.

Diverso l’atteggiamento verso la radio privata commerciale. Essa viene spesso descritta come «banale», però mai con l’aggressività con cui sono bollate e messe all’indice le «volgarità» televisive; la musica «leggera» (già un aggettivo di scarsa moralità) trasmessa dalle varie radio è «sempre uguale», e il suo parlato è definito un «bla bla», insieme di chiacchiere ripetitive e povere di senso. Tuttavia anche la radio privata comincia ad avere i suoi estimatori, perché spesso fa informazione puntuale e ricorrente, e perché le si riconosce una prossimità con un mondo giovanile altrimenti assai difficile da raggiungere. Certamente in questa migliore disposizione nei confronti della radio commerciale incide il fatto che le proprietà di grandi quotidiani («la Repubblica», «Il Sole-24 Ore», il «Corriere della Sera») sono imparentate in modo stretto con grandi emittenti radiofoniche.

Esempi celebri

Nel maggio 2003 i quotidiani italiani hanno pubblicato, con evidenza, una notizia di quelle che si pubblicano volentieri: in Gran Bretagna, per una sera, l’ascolto radiofonico era stato più elevato di quello televisivo. Fortunato Paese, hanno pensato gli intellettuali italiani, in cui esiste un vero servizio pubblico, capace anche di confrontarsi duramente con il proprio governo, e un giornalismo televisivo «bipartisan». Aggiungiamo volentieri che la Bbc (cui generalmente viene tributato dai giornalisti il complimento «mitica») dispone di quattro reti radiofoniche nazionali (e 44 locali) contro le tre della Rai, e ha il 51% dell’ascolto contro il 20 della radio pubblica italiana, penultima (solo la Spagna fa peggio) in Europa (nota 1). Il «sorpasso» britannico della radio sulla tv costituiva un fatto sporadico, ma è stato il catalizzatore di una sensibilità crescente attorno alla radio e si è collegato all’idea che il mezzo è in crescita di ascolti e di maturità, anche se non raggiunge più, o di rado, le platee oceaniche a cui giungeva prima di essere spodestata dalla televisione. Come vedremo, in questa sensazione c’è qualcosa di vero ma un po’ di oleografico che nasconde un’insufficiente conoscenza delle cose.

Intanto, le masse oceaniche attorno alla radio non ci sono mai state, se non quando essa fungeva da altoparlante per i discorsi di Mussolini, e raccoglieva in spazi pubblici ascoltatori non proprio volontari e spontanei, convocati ad ascoltare i comizi del duce con un’esplicita mimesi decentrata dei raduni romani in Piazza Venezia. Se prescindiamo da questo uso propagandistico e totalitario del mezzo, negli anni Cinquanta abbiamo avuto sì platee cinematografiche gremite, ma un ascolto radiofonico ristretto, molto più che altrove: basta pensare agli Stati Uniti dove ancora oggi ogni sabato il presidente rivolge un discorso alla nazione attraverso la radio. Un’indagine italiana del 1960, quando l’effetto di sostituzione della televisione doveva ancora esercitarsi pienamente, calcola che il numero massimo di ascoltatori della radio non superava i sei milioni, con una distribuzione nella giornata media che non scendeva mai, tra le 7 del mattino e le 22, sotto il milione. Oscillava quindi in una «forchetta », come dicono gli statistici, fra 1 e 6 milioni di persone. Il numero degli ascoltatori saliva costantemente fino a raggiungere il massimo, 6 milioni, alle ore 13, quindi scendeva di nuovo fino a toccare il milione di spettatori fra le 15 e le 16, descrivendo così un’Italia ancora dedita al sonnellino pomeridiano.

Successivamente il numero degli ascoltatori ricominciava a crescere raggiungendo, fra le 20 e le 21, una punta di quasi 6 milioni; quindi scendeva bruscamente fin quasi ad annullarsi alle 23 (nota 2). Notiamo subito che il picco di ascolto era meridiano, non serale; la radio non ha mai avuto quell’egemonia sulle serate familiari che è stata poi caratteristica della tv. L’ascolto si ripartiva in maniera equilibrata sulle due reti principali della Rai (Programma nazionale e Secondo programma), la prima prevalentemente meridiana e la seconda maggiormente serale, mentre il Terzo programma, a carattere culturale, è sempre stata una presenza marginale che non superava nemmeno nel dopocena la cifra non eccelsa di 200 mila ascoltatori (nota 3).

Perché la radio era ascoltata così poco? Ciò avveniva perché le famiglie non avevano potere d’acquisto sufficiente per dotarsi di un apparecchio radiofonico, la rivoluzione del transistor era ancora inavvertita, e il massimo sforzo veniva caso mai concentrato sugli acquisti che meglio avevano caratteristiche di status symbol: l’automobile e la televisione. In altre parole, quando sarebbero esistite le condizioni sociali per un ascolto plebiscitario della radio il suo ascolto è stato limitato dalle condizioni economiche che impedivano l’acquisto degli apparecchi e la sottoscrizione dell’abbonamento. Quando poi il benessere e l’abbassamento dei prezzi degli apparecchi hanno consentito una larga diffusione della radio, essa ha dovuto subire la concorrenza della televisione che conteneva una carica di immaginario molto superiore. La televisione da subito si dà una connotazione serale; è il mezzo del «ritorno a casa» dopo il lavoro, diventa la regina delle serate familiari degli italiani, mentre la radio è il mezzo della mobilità, del lavoro, di un uso personale. Se il giornale è sempre stato un medium «mattiniero», anche la radio lo è con maggior decisione.

Negli anni Ottanta alle 6 del mattino 1 milione di persone ascolta la radio, ma un’ora dopo sono già 7 milioni; poi il dato scende ma all’ora di pranzo sono di nuovo 6 milioni. Nel pomeriggio è tutta una discesa, dopo le 20 siamo sotto il milione, mentre è la tv a monopolizzare l’attenzione delle famiglie. La vecchia platea radiofonica serale non esiste più (nota 4).

Gli spazi della radio

L’analisi di questi dati si presta a diverse considerazioni. Negli anni Ottanta la radio tocca un picco di ascolto (7 milioni) che non aveva mai raggiunto nei suoi anni d’oro, ma soprattutto l’ora del massimo ascolto è cambiata, non più dalle 12 alle 13 ma dalle 7 alle 8 del mattino. È evidente che il telegiornale meridiano (in onda alle 13,30 dal 1968) ha eroso profondamente il precedente picco della radio, come la serata televisiva ha sostituito quasi integralmente l’ascolto serale della radio. Rimane da spiegare come mai poco più di un milione di italiani ascoltasse il giornale radio dalle 7 alle 8 nel 1960, e più di sei volte tanto fosse l’ascolto dello stesso giornale radio nel 1987 (e ancora oggi), pur in presenza di una concorrenza televisiva (la breakfast television iniziata nel 1984 sulle reti private e due anni dopo sulla Rai). La spiegazione è correlata a un’evoluzione di quella «preghiera laica del mattino», secondo Hegel, che consisteva nel rito della lettura della stampa quotidiana e che si svolge ora ascoltando la radio, prima o senza la consultazione dei giornali stampati, nella propria casa prima di uscire; oppure in automobile andando al lavoro. Essa riguarda ormai un numero di italiani ragguardevole, superiore alla tiratura complessiva dei quotidiani a stampa, grazie all’evoluzione della società verso una condizione metropolitana e un’economia fondata sui servizi. Ciò segnala l’assoluta incapacità dei quotidiani italiani a collegarsi a qualche nuovo pubblico, ma segnala anche un cambio di funzione sociale della radio. In quella stessa indagine del 1987 si registrano modifiche ormai irreversibili nella fruizione del mezzo radiofonico. Gli ascoltatori che seguono la radio a casa sono solo il 64,7%. Di essi il 10,1% ascolta la radio e non fa altro, ma gli altri lavorano, mangiano, si vestono, studiano. Il 35,3% fruiva della radio fuori casa: il 20,2% sul luogo di lavoro e il 9,4% su un mezzo di trasporto.

Il 1987 è un anno importante perché è quello del sorpasso della radio commerciale privata su Radio Rai; un sorpasso che in televisione non è mai avvenuto, grazie all’assetto duopolistico Rai-Mediaset. Inesistenti sul terreno informativo, i privati superano la Rai alle 9, cessato l’effetto dei giornali radio del mattino, e gradualmente assumeranno la leadership in tutto il resto della giornata.

Mentre in televisione il competitore della Rai è essenzialmente Fininvest/Mediaset, qui la concorrenza è di una decina di radio nazionali a carattere commerciale. Quando, negli anni Novanta, esse affronteranno con maggiore professionalità il tema dell’informazione, i picchi della Rai saranno ulteriormente erosi. Tuttavia le difficoltà della radio pubblica saranno «coperte» da un consistente aumento del numero degli ascoltatori.

Ci stiamo così avvicinando alla tesi che questo saggio intende presentare. Possiamo anticiparla in forma paradossale? La radio è diventata grande quando tutti dicevano (qualcuno lo dice ancora) che era un rottame senza vita o uno sciocco giocattolo per giovani, e correvano ad offrirci qualche pensosa opinione sulla televisione e sulle varie forme del suo dominio.

Per esprimerlo in un concetto, negli anni Quaranta e Cinquanta un’Italia che lavorava sodo e non aveva molti soldi da spendere in consumi privati non ha potuto attribuire alla radio il ruolo che essa ha avuto in altri Paesi occidentali.

L’arrivo della televisione ha brutalmente messo da parte una radio intrinsecamente debole nel suo rapporto col pubblico, così come ha fatto con i giornali quotidiani che – per il noto ritardo italiano nell’alfabetizzazione – non si erano mai sviluppati, non diventando un’industria autorevole in quantoautosufficiente. Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta, lo sviluppo di una società metropolitana, postmoderna, postindustriale, da tutti definita «visiva », dominata (si dice) dalle immagini e dalla televisione, ha attribuito alla radio un ruolo sempre più importante, che non aveva avuto nemmeno nei suoi anni d’oro, nei suoi «radio days». Essa ha avuto bisogno della radio più di quanto l’istituzione radiofonica potesse offrire (di qui il successo dell’emittenza privata), ha preteso un radicale cambiamento di formati e di linguaggi comunicativi, ma li ha ripagati con uno straordinario aumento del pubblico. Questo processo è assai diverso da quanto è avvenuto in televisione: qui il pubblico è salito negli anni Settanta e Ottanta, prima per la moltiplicazione dell’offerta, poi per l’occupazione di tutti gli spazi della giornata (cosa che la radio fa dagli anni Trenta). A questo punto è diventato stabile, poi stagnante, e si è equamente distribuito sui due network maggiori, lasciando a tutti gli altri le briciole.

In radio, invece, l’ascolto è stato stagnante mentre la televisione cresceva, poi nel 1985 si è messo in movimento, crescendo di circa un milione di ascoltatori all’anno. Nel 1998 è stata fondata Audiradio, e il calcolo dell’audience ha assunto un’efficienza statistica rispettabile (nota 5). Abbiamo raccolto in una tabella la sequenza delle audience annuali della radio, in gran parte attinta dalle rilevazioni Audiradio, da cui risulta chiaramente che negli anni del consolidamento e poi della stagnazione televisiva la radio è cresciuta continuamente fino a raggiungere i 35 milioni di ascoltatori nel 1997. Sono gli anni in cui si affermano le radio nazionali private, prevalentemente musicali, ma è significativo il balzo in avanti in corrispondenza della guerra del Golfo del 1990.

Anno

Ascolto radio

1983

24.840

1984

24.727

1985

24.682

1986

25.591

1987

24.806

1988

25.858

1989

26.536

1990

26.120

1991

29.844

1992

30.981

1993

33.051

1994

33.749

1995

33.788

1996

34.845

1997

35.244

1998

35.523

1999

35.523

2000

35.084

2001

34.998

2002

35.425

2003 (primo semestre)

35.832

Fonti:

Evidentemente la guerra fece riscoprire le potenzialità informative del mezzo, nella penuria di immagini televisive. Si disse in più occasioni che la copertura della guerra del Golfo era stata di tipo radiofonico: alimentata soprattutto dalle telefonate (satellitari) degli inviati, senza adeguato corredo di immagini. La legge Mammì del 1990 sanciva per le emittenti nazionali, radiofoniche e televisive, l’obbligo di trasmettere notiziari e in questo decennio la componente informativa della radiofonia privata si è notevolmente sviluppata.

È dubbio però che sia questa la ragione primaria di una crescita che ha sempre mantenuto la radio sopra i 35 milioni di ascoltatori quotidiani. Una prova indiretta può essere fornita dalla mancanza di una ricaduta in termini di ascolto radiofonico della seconda guerra del Golfo (20 marzo-16 aprile 2003), evidente se si confrontano i dati Audiradio del primo e del secondo ciclo 2003:

Primo ciclo Audiradio (rilevazioni effettuate dall.11 gennaio al 21 marzo 2003, ascoltatori quotidiani): 36.080.000

Secondo ciclo Audiradio (rilevazioni effettuate dal 22 marzo al 13 giugno 2003, ascoltatori quotidiani): 35.610.000

Anche depurando i dati della stagionalità, è evidente che un «effetto guerra » non c’è stato. Giova notare che, per i diversi orientamenti degli Stati maggiori, in questo caso non c’è stata penuria di immagini televisive di grande impatto, anche se di dubbio senso critico per le condizioni di subalternità in cui erano state girate.

L’ascolto radiofonico, nella giornata, ha oggi un andamento complementare alla visione televisiva. Le ore del primo mattino sono le più pregiate; l’informazione con cui si inizia la giornata è sempre quella radiofonica, in casa o in auto. Tra le 7 e le 9 del mattino quasi dodici milioni di persone ascoltano la radio, e tra esse sicuramente la classe dirigente del Paese. Successivamente il ciclo vitale della radio, nella giornata, coincide con quello della vita attiva e del lavoro. Significativamente, ha un calo nelle ore meridiane, quelle del ritorno a casa o della pausa pranzo, dove probabilmente si fa sentire la concorrenza del telegiornale, in una fascia oraria che era stata tradizionalmente ad alto ascolto radiofonico fino ai primi anni Novanta. La radio risale un poco nel pomeriggio, anche per l’apporto dei giovani che al mattino erano a scuola; poi decresce lentamente man mano che si riempie la platea televisiva. La notte è per pochi appassionati, ma chi lavora o viaggia in quelle ore difficilmente non ascolta la radio. La radio viene oggi ascoltata dal 63,38% degli italiani di età superiore agli 11 anni, mentre settimanalmente raggiunge una penetrazione dell’82,47% della popolazione. La ascoltano prevalentemente i giovani, in cui la penetrazione è fra i 10 e i 20 punti superiore alla media, ma anche imprenditori, commercianti, casalinghe.

Molto significativa è anche la quota dell’ascolto che si svolge in automobile. L’autoradio (il cui bacino di utenza si può oggi quantificare fra i 15 e i 20 milioni di utenti) sviluppa al massimo le caratteristiche di ubiquità proprie del mezzo, che ha trovato una forte sinergia con il telefono cellulare sia per la produzione delle notizie sia per le chiamate da parte degli ascoltatori. Anche per questo gran parte delle emittenti ha adottato formati radiofonici fondati sulla ripetizione rotatoria, ad ogni ora, di uno schema fisso di programmazione, il cosiddetto clock, che esalta le caratteristiche di riconoscibilità della stazione e si congiunge efficacemente con un ascolto casuale e mobile, che non rispetta orari fissi, come quello adottato dalla maggior parte degli ascoltatori in condizione di mobilità.

In Italia, come in tutti i Paesi dell’Europa occidentale, la radio è il secondo dei media nei consumi, subito alle spalle della televisione, con una particolare predilezione da parte dei giovani tra i 15 e i 24 anni. Nessun mezzo può vantare una percentuale così alta di giovani nel suo pubblico. Il plafond dei 35 milioni di ascoltatori giornalieri, tuttavia, è oggi sostanzialmente stabile. Di questa stabilità dell’ascolto possono darsi varie interpretazioni. Probabilmente non si tratta di un tetto invalicabile; la radio è destinata a crescere ancora perché le sue caratteristiche di leggerezza, interattività, ibridazione con le telecomunicazioni e con internet esprimono lo spirito del nostro tempo. La pausa nella crescita significa che la radio ha fatto il pieno del pubblico che era avvicinabile con i formati comunicativi che è venuta predisponendo tra la fine degli anni Ottanta e la metà del decennio successivo: tipicamente musicali, con un parlato di accompagnamento.

Un ripensamento profondo dei formati comunicativi della radio è in atto, per cercare nuovi formati e nuovi pubblici. Certamente il rapporto musicaparola si sta spostando a tutto beneficio della parola che nelle sue varie declinazioni (informativa, di intrattenimento, culturale) appare sempre più presente nella programmazione e rappresenta probabilmente l’innovazione nei formati radiofonici del futuro prossimo.

Radio Rai

In questo panorama la radio pubblica intercetta meno di un quarto dell’ascolto. Radio Uno è sempre la stazione più ascoltata, ma Radio Due è sempre più insidiata, e ormai talvolta superata, da radio private commerciali con bacino nazionale, come Radio Dee Jay, Rtl 102,5, Radio Dimensione Suono. Esiste un gruppo di solide radio nazionali prevalentemente musicali e di intrattenimento leggero (oltre a quelle citate, Radio Italia, Radio 105, Montecarlo, Radio Italia, Kiss Kiss, Radio 101), a cui si aggiungono almeno due syndication (radio formalmente non nazionali che condividono i programmi per una larga parte della giornata e che vengono dal pubblico percepite come «nazionali ») come Lattemiele e Radio Italia Solo Musica Italiana Anni Sessanta, che calamitano soprattutto il pubblico giovanile. Ad esse si aggiungono varie radio nazionali parlate, come Radio Radicale, Radio Maria che è una radio di culto, e una radio di informazione come Radio 24 - Il Sole-24 Ore. Ad esse si aggiungono circa 200 emittenti locali significative, di cui una ha le proporzioni di una radio nazionale (Radio Subasio) e un’altra decina si avvicina ad esse.

La radio pubblica ha un forte problema nei confronti dei giovani. Essa è fortemente radicata nelle generazioni che hanno più di 35 anni (cioè quelle nate quando la radio privata non esisteva o quasi), ma il suo appeal verso i giovani decresce in proporzione inversa all’età, sino a raggiungere quote allarmanti di disaffezione nei giovanissimi. Questo insediamento è speculare rispetto alle principali emittenti nazionali private, mentre alcune (Radio Capital e, in forma più accentuata, Radio Montecarlo) riescono a prolungare il loro insediamento nella fascia fino a 44 o 54 anni, a discapito del loro successo tra gli adolescenti. Un’operazione tentata con successo anche dalla radio di informazione Radio 24 - Il Sole-24 Ore. Le radio «parlate», come Radio Radicale e Radio Maria, nonostante la loro forte diversità, insistono sulla stessa piattaforma generazionale della radio pubblica.

Questi dati vanno valutati senza allarmismo. In televisione la Rai vanta il 45% dell’ascolto, ma a fronte di un altro soggetto, Mediaset, delle medesime proporzioni (e maggiore appeal fra i giovani, anche qui). In radiofonia la Rai ha meno del 25% dell’ascolto, ma a fronte di una pluralità di radio nazionali, in cui i soggetti significativi sono una decina (fra cui Il Sole-24 Ore e il Gruppo l’Espresso), e fanno sia radio parlata che radio musicale con effetti di grande pluralismo, realizzando veramente una radio «a più voci». Inoltre, mentre in televisione la Rai ha un numero di reti superiore a quello di quasi tutte le aziende di servizio pubblico in Europa e altrove, le reti radiofoniche (tre) di cui dispone sono molto meno di quelle che ha il servizio pubblico in Francia, in Inghilterra, in Germania: sono gli effetti perversi della torsione totale della Rai verso la televisione, della distrazione di ogni risorsa per tonificare gli ascolti televisivi in una concorrenza senza quartiere con Fininvest-Mediaset, che nascondeva peraltro un sostanziale accordo di cartello al fine di eliminare tutti i soggetti terzi dalla scena televisiva.

Tuttavia, anche senza voler indulgere a troppi allarmismi, fa fatica ad affermarsi all’interno della Rai la considerazione che in un’era dominata dalle immagini televisive la radio non perde il suo significato, ma anzi ne assume di nuovi; il frenetico spoils system e un rapporto esasperato con la politica, che le hanno imposto un nuovo consiglio di amministrazione ogni quindici mesi (è la media dell’ultimo decennio), hanno accentuato la dipendenza dal prodotto maggiore, quello televisivo, in cui gruppi dirigenti venuti dall’esterno, privi di conoscenze specifiche, individuano approssimativamente il vero core business, o meglio quello su cui saranno giudicati, con altrettanta approssimazione, dai loro referenti politici. Un valido gruppo di dirigenti, giovani e meno giovani, esperti delle cose che fanno, fa fatica a farsi ascoltare. Eppure basterebbe un po’ di attenzione per capire che la radio è fondamentale per fornire al Paese un’informazione tempestiva e per il rapporto con i più giovani. Non a caso la rete televisiva nazionale più giovanile, Italia Uno, ha un andamento prettamente radiofonico (basta pensare a Mai dire gol), clonando voci ed esperienze di una radio di sinistra milanese, la già citata Radio Popolare (naturalmente senza i contenuti politici).

Forse per questo motivo alle molte ristrutturazioni non ha fatto seguito un adeguamento della radio pubblica che tenga conto dei linguaggi radiofonici ormai prevalenti e maggioritari e di modalità di ascolto più leggere, casuali e itineranti da parte degli ascoltatori, soprattutto di quelli più giovani. Siamo in presenza quindi di una lenta ma continua emorragia del suo pubblico e, soprattutto, del suo invecchiamento senza che sia sostituito da nuove leve di ascoltatori, che conoscono la radiofonia privata in modo pressoché esclusivo.

Certo i dati numerici delle indagini sull’ascolto radiofonico vanno sempre presi con i guanti e, come i risultati elettorali, si prestano a interpretazioni plurime che consentono a molti di cantar vittoria o almeno di salvare la faccia. Tuttavia sembra incontestabile, perché è una costante negli ultimi anni, che l’informazione di Radio Uno ha perso ascoltatori nei confronti dell’emittente all news del Sole-24 Ore e di Radio Capital (Gruppo l’Espresso), e che Radio Due è ormai alla pari con Radio Deejay e fatica a mantenere la posizione di seconda emittente italiana alle spalle di Radio Uno. La buona performance di Radio Tre non è una contromisura sufficiente, anche perché ha subito un qualche abbassamento di livello e talvolta si ha l’impressione che voglia scrollarsi di dosso il suo pubblico, alla ricerca di nuovi target, fornendo ai suoi ascoltatori affezionati programmi culturalmente raffazzonati che non possono non farli arrabbiare. Come se il pubblico del teatro dell’opera (di mezz’età, amante della cultura, tradizionale) si vedesse distribuire un programma di sala con vistosi errori nelle biografie degli artisti, di quelli da segnare con la matita blu.

L’informazione radiofonica della Rai, pur essendo ancora la più autorevole, non è riuscita a concentrarsi su un solo canale e ad adottare quei formati brevi, cadenzati e ripetuti che sono la chiave per fidelizzare gli ascoltatori, lasciando anche «buchi» notevoli: ad esempio, alle 8 della sera non esiste un giornale radio Rai. Come per dire al proprio pubblico: vedetevi il Tg 1 in tv.

Inoltre non ha saputo sviluppare l’informazione regionale, che pure rappresenta il suo picco di massimo ascolto. Sigle e jingles cambiano d’improvviso, addirittura all’insaputa delle redazioni. Radio Due ha sviluppato ottimi programmi, fra cui lo straordinario Viva Radio Due di Baldini e Fiorello, vero cult radiofonico dell’anno con un entusiasmo che ricorda i vecchi tempi di Arbore e Boncompagni, ma nel suo palinsesto non sa tener conto dei ritmi più brevi e sincopati che la radio privata ha imposto ed è sempre in bilico tra una radio «generalista» e una giovanile. È vero che la scarsità del numero dei canali impone alla Rai di tenere Radio Due come una rete tuttofare, omnibus, che guarda ai teenager nel pomeriggio e alle casalinghe al mattino, che non può essere solo musicale o di intrattenimento giovanile per non perdere il suo pubblico consolidato, ma la vera innovazione non riguarda i contenuti (molti dei quali sono più che apprezzabili) ma una complessiva ritmizzazione del palinsesto. In altre parole, le radio private da quindici anni adottano il clock orario: ogni ora di trasmissione è tendenzialmente uguale alla precedente, e gli appuntamenti (musica, informazione, intrattenimento, pubblicità) vengono collocati sempre agli stessi minuti e sono sempre molto brevi. Ad esempio, ascoltando Radio 24 so che a qualsiasi ora del giorno, al ventiquattresimo minuto di ogni ora (un piccolo richiamo al giornale economico a cui appartiene), c’è un breve aggiornamento su borse e mercati; la Rai non mi dà mai la stessa sicurezza e mi costringe, alla ricerca di un notiziario, a fare slalom tra i suoi canali. Il clock lo troviamo anche in televisione (ad esempio la mattina presto del Tg 5) per la sua affidabilità nei confronti del pubblico nell’informazione di servizio, e dà alla programmazione una cadenza sincopata immediatamente riconoscibile da parte dell’ascoltatore. La Rai preferisce ripartire la programmazione in grossi blocchi, che vanno bene per l’ascoltatore fedele, ma hanno scarsa attrattiva su chi fedele non è e potrebbe diventarlo.

Ci siamo soffermati sinora sulle principali emittenti nazionali pubbliche e private: quelle più significative tra quelle dotate di una dimensione di impresa, e che dunque hanno affrontato in questa chiave i problemi strutturali, organizzativi e gestionali del broadcasting, o quelle che, pur non avendo una filosofia di impresa, hanno ritenuto di certificare in questo modo, da parte di un’istituzione indipendente, il loro ascolto davanti ai propri referenti culturali o politici.

È questo il caso di emittenti come Radio Maria o Radio Radicale. Ciò che resta fuori da questi criteri, come la radiofonia locale e quella comunitaria, non è necessariamente una radiofonia «minore». Spesso si tratta di emittenti che puntano soprattutto sulla loro riconoscibilità all’interno di una comunità locale anche piccola, che si fondano sul volontariato giovanile, sulla collaborazione di associazioni o gruppi culturali, politici, religiosi o sportivi, oppure su un’economia di varietà con un’azienda, un centro commerciale, una discoteca, un negozio di mobili che la finanzia in tutto o in parte in cambio di un risultato di immagine o pubblicitario. Centinaia di paesi italiani che non hanno più un cinema, un giornale, neanche una mezza pagina di cronaca sui giornali locali, hanno però una stazione radio.

Il ruolo culturale che complessivamente tutte queste piccole stazioni continuano a svolgere (senza costare una lira allo Stato) non può essere sottovalutato. La diffusione in internet di queste emittenti, che ha un costo ridotto e permette loro di essere ascoltate in tutto il mondo, annulla i loro limiti locali e si è dimostrato un efficace strumento di moltiplicazione del loro significato. L’incontro tra radio e internet è stato fecondo, versatile, intenso; oltre duemila radio nel mondo trasmettono sul web e se questo accade più che in televisione non lo si deve solo a un fatto tecnico, alla minore larghezza di banda richiesta da un file audio rispetto ad uno di immagini in movimento, ma ad una filosofia per molti aspetti simile, fondata sulla personalizzazione piuttosto che sulla massa, sulla nicchia e sulla specializzazione piuttosto che su un broadcasting generalizzato e generalista.

Conclusioni

La radio, dunque, vive una terza e fortunata giovinezza. È stato il primo mass medium personale e mobile, ha abbandonato la propria funzione di ascolto domestico e familiare (in cui è stata sostituita dalla più giovane sorella televisiva) per passare a forme d’ascolto molto congeniali alla postmodernità, frammentarie, randomiche, ibridate e multiple, sotto forma di transistor, di autoradio, di walkman. Si è miniaturizzata come apparato mentre cresceva a dismisura la sua funzione di medium delle identità e della connessione, di strumento di informazione in tempo reale e di contenitore soffice dell’oralità e dell’intimità. Ha fornito musica di ogni genere, rappresentando una colonna sonora della società contemporanea, un tappeto di audio su cui camminiamo sul lavoro e nelle città; si è alleata naturalmente al telefono cellulare riempiendo di conversazioni e di Sms gli interstizi della vita sociale. Prima di tutto in funzione «fatica», il famoso «bla bla», così definito dalla cultura tradizionale, ma che non è poi così da disprezzare in un mondo senza dialogo dove puoi essere ucciso ad un semaforo per una controversia su precedenze stradali sotto gli occhi di tutti; ma soprattutto come una grande narrazione orale, un composito affresco delle mille sfaccettature di una società ormai complessa.

Un mezzo giovane e metropolitano che può essere anche povero, frugale e semplice, noprofit, a bassa energia e costi ridotti; parlare da una comunità o da un Paese del terzo mondo, o dal campus di un’università. Leggero, ma forte e rapido nell’informare e nell’aggiornare, nel mantenerci connessi, nel fare aggregazione. Questo medium conferma la sua grande vitalità, i molteplici aspetti e fenomeni del suo mondo vitale e l’interesse – direi il fascino – che esso esercita su molte persone. Rimane tuttavia un oggetto scarsamente studiato e sottovalutato. Si può affermare che il territorio e i percorsi della radio di oggi rimangono in parte inesplorati o impalpabili, che le sue funzioni sociali, il suo «senso» profondo, la sua collocazione nel sistema dei media e nell’industria culturale rimangono ancora sommariamente definiti, o stabiliti per differenza dalla televisione e altri mezzi. Se vogliamo tentare un paragone musicale, vicino alla sonorità del nostro mezzo, questi percorsi e territori radiofonici sono come musiche di cui percepiamo distintamente il ritmo e che riusciamo a seguire, ma il cui retroterra culturale, il cui sfondo di riferimenti e citazioni musicali ci è poco noto. Soltanto grazie alla sua assoluta «privatezza» e «personalità» la radio è potuta diventare l’oggetto d’uso quotidiano, ma anche la proiezione di simboli e stati d’animo relazionali, che oggi constatiamo. Sentire la radio non è una necessità, ma una scelta precisa in un mondo sovraccarico di offerte informative e di intrattenimento; uno spazio elettrico al confine tra pubblico e privato. Uno «spazio elettivo» radiofonico che configura un mondo vitale e condiviso fatto di culture, linguaggi, atteggiamenti, stili di vita e di fruizione culturale. Al suo interno si muove un complesso poliforme di tendenze e funzioni diverse, ma complessivamente il mondo della radio sembra fortemente connesso alla capacità di rappresentare la più efficace interfaccia comunicativa tra sfera pubblica e sfera privata, personale e mobile, all’interno di una dotazione mediale ormai molto raffinata e ampia. La ormai avanzata ibridazione fra radio e telefono, fra radio e internet, non è soltanto dovuta ad affinità tecnica, ad una sorta di determinismo tecnologico, ma allo svolgimento di funzioni sociali complesse, sul confine tra individuazione personale e appartenenza alla società, in cui tutti questi media sono in vario modo coinvolti. L’integrazione fra i media, peraltro, è lo scenario del futuro, non per motivi tecnologici ma perché è quello che meglio va incontro ai gusti estetici diffusi e ai nuovi modelli di percezione di una società complessa.

Note

rcdb-radiodays (last edited 2008-06-26 09:51:21 by anonymous)