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1.1. Caracas corre verso il baratro «Ni un paso atras», non un passo indietro: i capi anti-chavisti Ortega e Fernandez concludono così, ogni giorno, il loro «bollettino di guerra» dai microfoni delle tv amiche (tutte tranne il canale pubblico). La crisi va in onda 24 ore al giorno, ieri allo sciopero si sono aggiunti i bancari, nelle piazze contese tra «bolivariani» e «coordinadora» la polizia fatica sempre più a tenere separati i gruppi, il paese importa benzina, la politica sembra morta. Una scintilla e salta tutto MAURIZIO MATTEUZZI INVIATO A CARACAS Ogni giorno un passo in più verso il baratro. La tremenda crisi venezuelana si avvita su se stessa senza che nessuna delle due parti che si fronteggiano - il governo legittimo di Hugo Chavez e l'opposizione golpista della coalizione padronal-sindacale - mostri la minima disponibilità a cercare una soluzione politica. «Ni un paso atras», concludono il loro bollettino di guerra quotidiano, letto alle belligeranti televisioni locali e alla stampa internazionale, Carlos Ortega, il sindacalista della Ctv, e Carlos Fernandez, il padrone della Fedecamaras. Non un passo indietro mentre le strade della Caracas orientale ribollono di cacerolazos e furore antichavista e quelle della Caracas centrale e occidentale rispondono con uguale odio contro «los traidores» e i sabotatori. La violenza si respira nell'aria, alimentata da un tam-tam ossessionante e quasi incredibile delle televisioni anti-chaviste - Globovision, Venevision, Rctv... - che hanno buttato via qualsiasi altro programma per trasmettere in diretta 24 ore su 24 le marce e gli scontri e dare le parole d'ordine della Coordinadora democratica in un clima di guerra civile sempre meno fredda.

Ieri mattina la marcia quotidiana dell'alta società civile, tutta bardata dei colori giallo, blu e rosso della bandiera, doveva andare fino alla sede del Consiglio nazionale elettorale, verso il centro di Caracas - in territorio nemico -, chiamato a dare il via libera al referendum consultivo fissato per il 2 febbraio, che Chavez respinge come incostituzionale. Ma il tam-tam di tv e radio ha dovuto annunciarne l'annullamento perché la piazza era stata già occupata dai chavisti che l'aspettavano e che poi hanno accolto con piete e bottiglie i rappresentanti della Coordinadora che si apprestavano ad entrare nella sede del Consiglio, tenendoli sotto assedio per ore prima che la Guardia nazionale disperdesse i manifestanti con i lagrimogeni. Dal vivo le belle giornaliste di Globovision e Venevision trasmettevano le immagini di quelli che qui chiamano «los oficialistas» - ma spesso, più sbrigativamente, anche «lumpen» e «ubriaconi» - protette dalle maschere antigas.

Così è in ogni parte del paese, con le forze dell'ordine che hanno sempre più difficoltà a tenere divise le schiere contrapposte.

Ieri il sindacato bancari ha deciso di unirsi al paro, cominciato il 2 dicembre, proclamando 48 ore di sciopero per oggi e domani. Finora le banche avevano funzionato a orario e sportelli ridotti, provocando file apocalittiche e pazienti. Come quelle che si vedono nei pressi delle stazioni di benzina. «Adesso va meglio, un'ora di fila e via, prima ci volevano anche nove ore per fare il pieno», mi dice uno. Il Venezuela, quinto esportatore mondiale di petrolio, è al paradosso di dover importare benzina. Navi cisterna sono arrivate a Maracaibo dal Brasile, da Trinidad, dalla Russia. Ma almeno la benzina c'è e la domenica i caraqueños possono scendere verso le spiagge per prendere un po' di respiro.

Anche nei mercati va meglio. I prodotti ci sono. Riso importato da Santo Domingo, farina comprata in Colombia. Poi ci sono le bancarelle degli informali, giù nel centro, intorno a Plaza Bolivar, intorno ai palazzi bianchi e coloniali di Miraflores e del Congresso, bastione del chavismo duro. La metà dei venezuelani, si calcola, lavora nell'economia informale e lì non c'è sciopero che tenga. Tutto il centro è il solito brulicare di sempre. Con in più l'ansiosa attesa dei gruppi chavisti più radicali - identificati nei Circoli bolivariani - per il possibile arrivo di qualche esponente dei «vendepatria» o di qualche equipe di Globovision o Venevision che di solito deve fare in fretta a scappare se non vuole vedersi sfasciare le telecamere e prendere sassate.

Il clima è infuocato e le accuse sfrenate. Martedì si apriva l'anno scolastico e c'era molta attesa, da una parte e dall'altra, per vedere se le scuole avrebbero aperto, se i maestri e i bambini sarebbero arrivati. Chavez è andato al liceo Gustavo Machado nel barrio povero di Catia per presenziare alla cerimonia ripresa dall'unica tv controllata dal governo - Canal 8 - e imposta in catena nazionale a tutte le altre, che non possono negarsi perché tira aria di vedersi oscurare il segnale da un momento all'altro. Si è subito aperta una guerra di cifre. Con Chavez a dire che il 90% delle scuole aveva aperto regolarmente e con le tv nemiche a ribattere che il 90-95% delle scuole erano rimaste chiuse e che le uniche erano quelle «bolivariane» (dove i bambini restano fino alle 16) che più che scuole sono centri di indottrinamento politico. «Non avete visto che uno dei bambini aveva una maglietta con l'immagine del Che Guevara?», ha detto una mezzobusto televisiva.

Il Venezuela va alla deriva. Il governo è impegnato in uno sforzo gigantesco per rimettere in piedi almeno l'industria petrolifera, che è la spina dorsale dell'economia e che rappresenta il 25-30% del prodotto interno, il 50% delle entrate e l'80% del valore dell'export. La Coordinadora è impegnata in uno sforzo gigantesco per portare il paese alla paralisi totale, nella speranza di costringere Chavez a dimettersi o di convincere finalmente le forze armate a cacciarlo. Come per la scuole, la guerra delle cifre non conosce freni. Il ministro dell'energia e miniere Rafael Ramirez assicura che la produzione è ripresa e che ha già raggiunto gli 800 mila barili al giorno. Juan Fernandez, il presidente del sindacato Gente de Petrolio e uno dei caporioni dello sciopero, nega e dice che la produzione è di 100 mila barili al giorno, contro i 3 milioni di prima.

Il tavolo dei negoziati sotto la mediazione del presidente dell'Osa Cesar Gaviria non produce risultati ma almeno serve a tenere insieme governo e opposizione ed è rimasto l'unico punto di incontro. E' bloccato da due veti reciproci: Chavez a dire che finché c'è il paro non si negozia, la Coordinadora a replicare che il paro non si negozia. La proposta di Chavez, mai formalizzata con chiarezza, di affidare la mediazione a un gruppo «di paesi amici» sembra nata morta per il no secco del ministro degli esteri messicano, l'ex compagno Jorge Castañeda, che si è consultato al proposito con il segretario di stato americano Colin Powell e ha anche criticato il Brasile per il solo fatto di avere mandato una nave carica di benzina al Venezuela.

«Ni un paso atras». Anzi ogni giorno un passo avanti. Verso dove? L'altra sera a Plaza Altamira, divenuto il cuore dell'opposizione, fra canti, discorsi, sventolio di bandiere e giovani patrioti in Harley Davidson, ho parlato con uno dei militari ribelli che vi stazionano da oltre un mese. «Qui ci sarà molta violenza e le forze armate prenderanno il controllo del paese - dice il generale en rebeldia Felipe Rodriguez -. Se non lo hanno fatto ancora è per via delle divisione politiche dentro alla Coordinadora. Ma lo faranno perché non si può andare avanti così». Così come? «Con 15 mila agenti cubani truccati da allenatori sportivi che Fidel ha mandato per addestrare i circoli bolivariani alla guerriglia urbana e rurale. Con i 400 libici che sono arrivati per preparare atti terroristici. Con i cinesi e i coreani pronti ad azioni mercenarie. Con Chavez che dà i soldi ad al Qaeda». Il brancaleone in tuta mimetica delira, ma i suoi deliri, qui, sono diventati di massa.

Verso dove, dunque? Intanto verso una sempre più probabile, e prossima, proclamazione dello stato di assedio (che l'opposizione ha già detto che sfiderà e che forse desidera). Ma anche oltre. Ha detto Chavez martedì in televisione: «Tutti gli scenari sono possibili. Io ho imparato che in guerra uno deve essere sempre pronto per lo scenario peggiore. Io sono pronto per il peggiore degli scenari peggiori. E in ogni caso noi sconfiggeremo i nemici della patria».

1.2. INTERVISTA «E il peggio deve ancora arrivare» Teodoro Petkoff, ex guerrigliero, ex ministro, anti-chavista: «Monta la violenza» M.M. CARACAS In Venezuela la situazione è drammatica ma «il peggio deve ancora venire», dice Teodoro Petkoff. Peggio di così? «Violenza generalizzata di strada e poi il collasso economico». Che sarà l'eredità avvelenata che il tremendo scontro in atto lascerà al prossimo governo. Sia esso guidato da Chavez o da qualche personaggio dell'opposizione. Teodoro Petkoff è un'ex guerrigliero degli anni 60, poi fondatore del Mas - il Movimiento al socialismo - , intellettuale, giornalista, politico. Conosce molto bene il manifesto («come stanno Rossanda e Magri?»). Nella seconda metà degli anni 90 è stato ministro della pianificazione nel governo di Rafael Caldera, predecessore di Chavez. Oggi dirige il quotidiano TalCual, nella cui sede mi riceve.

Petkoff è un bastian contrario nato. Non ha mai considerato Chavez un uomo di sinistra anche se vittima del vecchio «infantilismo di sinistra», tanto che quando il Mas decise di appoggiarlo alle elezioni del `98, lui se ne andò dal partito (anche il Mas, successivamente uscì dall'alleanza chavista). Ma nel contempo non marcia con l'opposizione, che considera «manipolata dall'estrema destra», anche se al suo interno c'è un ventaglio di posizioni che vanno dalle classi medie impaurite e rabbiose a gruppi di estrema sinistra - come l'ultra-gauchista Bandera Roja -: «un altro successo di Chavez», essere riuscito a unificare ceti sociali, settori economici e movimenti politici così distanti fra loro. Il paro «è una stupidaggine», dice, perché l'opposizione avrebbe dovuto farlo bollire nel suo brodo, c'erano tutte le condizioni per farlo cadere per vie elettorali. Anche se riconosce che tutti i leader d'opposizione a confronto di Chavez sono dei nani. Al momento non vede vie d'uscita. La soluzione dovrebbe essere «politica», ma in Venezuela c'è «un vuoto politico» drammatico in cui monta «una violenza di strada ormai quasi incontrollabile». In un paese armato fino ai denti e vittima di una polarizzazione sociale, politica, antropologica, di un odio viscerale fra - schematizzando - la classe media da un lato e dall'altro gli strati più bassi di popolo che rimanda anche Petkoff al Cile allendista pre-Pinochet. «Gli errori infantili di Chavez, come la sbandierata amicizia con Fidel, hanno creato il panico nelle classe media, manipolata dall'estrema destra dura». Al di là delle parole, dice impietosamente, nel Venezuela di Chavez «non c'è stata nessuna rivoluzione ma c'è sì la controrivoluzione». Un golpe? «No, non credo. Credo che le forze armate dovrebbero fare sentire il loro peso obbligando le parti a trovare una soluzione politica». Per Petkoff non ci sono alternative a una opzione elettorale e Chavez è condannato «a perdere qualsiasi elezione: 65-70% contro e del 30-35% per lui». L'unica sua speranza sta nelle divisioni dell'opposizione, tenuta insieme solo dall'antichavismo. Cada o non cada Chavez, lui o un altro dovranno fronteggiare «il collasso economico: nel 2002 l'economia è crollata dell'8-9% e questo con un Pil che per il 25-30% si deve ai tre milioni di barili al giorno di petrolio. Nel 2003, se tutto va bene, non si può prevedere una produzione superiore al milione e mezzo di barili al giorno. Si fa presto a fare i conti. E la disoccupazione che nel 2002 era già del 16-17% quest'anno supererà il 20%». Pur non essendo per nulla simpatizzante di Chavez, Petkoff riconosce che «se Chavez cade sarà un disastro per la sinistra in Venezuela. Per anni sarà tagliata fuori e dovrà pagare il prezzo del fallimento di Chavez». Amen.

Dal_Manifesto_di_giovedi_9_gennaio_03 (last edited 2008-06-26 09:55:26 by anonymous)