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Dal sito di Via Alterna. 1) Dal Manifesto di giovedi 9 gennaio 03.

Caracas corre verso il baratro
«Ni un paso atras», non un passo indietro: i capi anti-chavisti Ortega e Fernandez concludono così, ogni giorno, il loro «bollettino di guerra» dai microfoni delle tv amiche (tutte tranne il canale pubblico). La crisi va in onda 24 ore al giorno, ieri allo sciopero si sono aggiunti i bancari, nelle piazze contese tra «bolivariani» e «coordinadora» la polizia fatica sempre più a tenere separati i gruppi, il paese importa benzina, la politica sembra morta. Una scintilla e salta tutto
MAURIZIO MATTEUZZI
INVIATO A CARACAS
Ogni giorno un passo in più verso il baratro. La tremenda crisi venezuelana si avvita su se stessa senza che nessuna delle due parti che si fronteggiano - il governo legittimo di Hugo Chavez e l'opposizione golpista della coalizione padronal-sindacale - mostri la minima disponibilità a cercare una soluzione politica. «Ni un paso atras», concludono il loro bollettino di guerra quotidiano, letto alle belligeranti televisioni locali e alla stampa internazionale, Carlos Ortega, il sindacalista della Ctv, e Carlos Fernandez, il padrone della Fedecamaras. Non un passo indietro mentre le strade della Caracas orientale ribollono di cacerolazos e furore antichavista e quelle della Caracas centrale e occidentale rispondono con uguale odio contro «los traidores» e i sabotatori. La violenza si respira nell'aria, alimentata da un tam-tam ossessionante e quasi incredibile delle televisioni anti-chaviste - Globovision, Venevision, Rctv... - che hanno buttato via qualsiasi altro programma per trasmettere in diretta 24 ore su 24 le marce e gli scontri e dare le parole d'ordine della Coordinadora democratica in un clima di guerra civile sempre meno fredda.

Ieri mattina la marcia quotidiana dell'alta società civile, tutta bardata dei colori giallo, blu e rosso della bandiera, doveva andare fino alla sede del Consiglio nazionale elettorale, verso il centro di Caracas - in territorio nemico -, chiamato a dare il via libera al referendum consultivo fissato per il 2 febbraio, che Chavez respinge come incostituzionale. Ma il tam-tam di tv e radio ha dovuto annunciarne l'annullamento perché la piazza era stata già occupata dai chavisti che l'aspettavano e che poi hanno accolto con piete e bottiglie i rappresentanti della Coordinadora che si apprestavano ad entrare nella sede del Consiglio, tenendoli sotto assedio per ore prima che la Guardia nazionale disperdesse i manifestanti con i lagrimogeni. Dal vivo le belle giornaliste di Globovision e Venevision trasmettevano le immagini di quelli che qui chiamano «los oficialistas» - ma spesso, più sbrigativamente, anche «lumpen» e «ubriaconi» - protette dalle maschere antigas.

Così è in ogni parte del paese, con le forze dell'ordine che hanno sempre più difficoltà a tenere divise le schiere contrapposte.

Ieri il sindacato bancari ha deciso di unirsi al paro, cominciato il 2 dicembre, proclamando 48 ore di sciopero per oggi e domani. Finora le banche avevano funzionato a orario e sportelli ridotti, provocando file apocalittiche e pazienti. Come quelle che si vedono nei pressi delle stazioni di benzina. «Adesso va meglio, un'ora di fila e via, prima ci volevano anche nove ore per fare il pieno», mi dice uno. Il Venezuela, quinto esportatore mondiale di petrolio, è al paradosso di dover importare benzina. Navi cisterna sono arrivate a Maracaibo dal Brasile, da Trinidad, dalla Russia. Ma almeno la benzina c'è e la domenica i caraqueños possono scendere verso le spiagge per prendere un po' di respiro.

Anche nei mercati va meglio. I prodotti ci sono. Riso importato da Santo Domingo, farina comprata in Colombia. Poi ci sono le bancarelle degli informali, giù nel centro, intorno a Plaza Bolivar, intorno ai palazzi bianchi e coloniali di Miraflores e del Congresso, bastione del chavismo duro. La metà dei venezuelani, si calcola, lavora nell'economia informale e lì non c'è sciopero che tenga. Tutto il centro è il solito brulicare di sempre. Con in più l'ansiosa attesa dei gruppi chavisti più radicali - identificati nei Circoli bolivariani - per il possibile arrivo di qualche esponente dei «vendepatria» o di qualche equipe di Globovision o Venevision che di solito deve fare in fretta a scappare se non vuole vedersi sfasciare le telecamere e prendere sassate.

Il clima è infuocato e le accuse sfrenate. Martedì si apriva l'anno scolastico e c'era molta attesa, da una parte e dall'altra, per vedere se le scuole avrebbero aperto, se i maestri e i bambini sarebbero arrivati. Chavez è andato al liceo Gustavo Machado nel barrio povero di Catia per presenziare alla cerimonia ripresa dall'unica tv controllata dal governo - Canal 8 - e imposta in catena nazionale a tutte le altre, che non possono negarsi perché tira aria di vedersi oscurare il segnale da un momento all'altro. Si è subito aperta una guerra di cifre. Con Chavez a dire che il 90% delle scuole aveva aperto regolarmente e con le tv nemiche a ribattere che il 90-95% delle scuole erano rimaste chiuse e che le uniche erano quelle «bolivariane» (dove i bambini restano fino alle 16) che più che scuole sono centri di indottrinamento politico. «Non avete visto che uno dei bambini aveva una maglietta con l'immagine del Che Guevara?», ha detto una mezzobusto televisiva.

Il Venezuela va alla deriva. Il governo è impegnato in uno sforzo gigantesco per rimettere in piedi almeno l'industria petrolifera, che è la spina dorsale dell'economia e che rappresenta il 25-30% del prodotto interno, il 50% delle entrate e l'80% del valore dell'export. La Coordinadora è impegnata in uno sforzo gigantesco per portare il paese alla paralisi totale, nella speranza di costringere Chavez a dimettersi o di convincere finalmente le forze armate a cacciarlo. Come per la scuole, la guerra delle cifre non conosce freni. Il ministro dell'energia e miniere Rafael Ramirez assicura che la produzione è ripresa e che ha già raggiunto gli 800 mila barili al giorno. Juan Fernandez, il presidente del sindacato Gente de Petrolio e uno dei caporioni dello sciopero, nega e dice che la produzione è di 100 mila barili al giorno, contro i 3 milioni di prima.

Il tavolo dei negoziati sotto la mediazione del presidente dell'Osa Cesar Gaviria non produce risultati ma almeno serve a tenere insieme governo e opposizione ed è rimasto l'unico punto di incontro. E' bloccato da due veti reciproci: Chavez a dire che finché c'è il paro non si negozia, la Coordinadora a replicare che il paro non si negozia. La proposta di Chavez, mai formalizzata con chiarezza, di affidare la mediazione a un gruppo «di paesi amici» sembra nata morta per il no secco del ministro degli esteri messicano, l'ex compagno Jorge Castañeda, che si è consultato al proposito con il segretario di stato americano Colin Powell e ha anche criticato il Brasile per il solo fatto di avere mandato una nave carica di benzina al Venezuela.

«Ni un paso atras». Anzi ogni giorno un passo avanti. Verso dove? L'altra sera a Plaza Altamira, divenuto il cuore dell'opposizione, fra canti, discorsi, sventolio di bandiere e giovani patrioti in Harley Davidson, ho parlato con uno dei militari ribelli che vi stazionano da oltre un mese. «Qui ci sarà molta violenza e le forze armate prenderanno il controllo del paese - dice il generale en rebeldia Felipe Rodriguez -. Se non lo hanno fatto ancora è per via delle divisione politiche dentro alla Coordinadora. Ma lo faranno perché non si può andare avanti così». Così come? «Con 15 mila agenti cubani truccati da allenatori sportivi che Fidel ha mandato per addestrare i circoli bolivariani alla guerriglia urbana e rurale. Con i 400 libici che sono arrivati per preparare atti terroristici. Con i cinesi e i coreani pronti ad azioni mercenarie. Con Chavez che dà i soldi ad al Qaeda». Il brancaleone in tuta mimetica delira, ma i suoi deliri, qui, sono diventati di massa.

Verso dove, dunque? Intanto verso una sempre più probabile, e prossima, proclamazione dello stato di assedio (che l'opposizione ha già detto che sfiderà e che forse desidera). Ma anche oltre. Ha detto Chavez martedì in televisione: «Tutti gli scenari sono possibili. Io ho imparato che in guerra uno deve essere sempre pronto per lo scenario peggiore. Io sono pronto per il peggiore degli scenari peggiori. E in ogni caso noi sconfiggeremo i nemici della patria».


 


2) Dal sito di Via Alterna.

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1) Dal Manifesto di giovedi 9 gennaio 03.

Caracas corre verso il baratro «Ni un paso atras», non un passo indietro: i capi anti-chavisti Ortega e Fernandez concludono così, ogni giorno, il loro «bollettino di guerra» dai microfoni delle tv amiche (tutte tranne il canale pubblico). La crisi va in onda 24 ore al giorno, ieri allo sciopero si sono aggiunti i bancari, nelle piazze contese tra «bolivariani» e «coordinadora» la polizia fatica sempre più a tenere separati i gruppi, il paese importa benzina, la politica sembra morta. Una scintilla e salta tutto MAURIZIO MATTEUZZI INVIATO A CARACAS Ogni giorno un passo in più verso il baratro. La tremenda crisi venezuelana si avvita su se stessa senza che nessuna delle due parti che si fronteggiano - il governo legittimo di Hugo Chavez e l'opposizione golpista della coalizione padronal-sindacale - mostri la minima disponibilità a cercare una soluzione politica. «Ni un paso atras», concludono il loro bollettino di guerra quotidiano, letto alle belligeranti televisioni locali e alla stampa internazionale, Carlos Ortega, il sindacalista della Ctv, e Carlos Fernandez, il padrone della Fedecamaras. Non un passo indietro mentre le strade della Caracas orientale ribollono di cacerolazos e furore antichavista e quelle della Caracas centrale e occidentale rispondono con uguale odio contro «los traidores» e i sabotatori. La violenza si respira nell'aria, alimentata da un tam-tam ossessionante e quasi incredibile delle televisioni anti-chaviste - Globovision, Venevision, Rctv... - che hanno buttato via qualsiasi altro programma per trasmettere in diretta 24 ore su 24 le marce e gli scontri e dare le parole d'ordine della Coordinadora democratica in un clima di guerra civile sempre meno fredda.

Ieri mattina la marcia quotidiana dell'alta società civile, tutta bardata dei colori giallo, blu e rosso della bandiera, doveva andare fino alla sede del Consiglio nazionale elettorale, verso il centro di Caracas - in territorio nemico -, chiamato a dare il via libera al referendum consultivo fissato per il 2 febbraio, che Chavez respinge come incostituzionale. Ma il tam-tam di tv e radio ha dovuto annunciarne l'annullamento perché la piazza era stata già occupata dai chavisti che l'aspettavano e che poi hanno accolto con piete e bottiglie i rappresentanti della Coordinadora che si apprestavano ad entrare nella sede del Consiglio, tenendoli sotto assedio per ore prima che la Guardia nazionale disperdesse i manifestanti con i lagrimogeni. Dal vivo le belle giornaliste di Globovision e Venevision trasmettevano le immagini di quelli che qui chiamano «los oficialistas» - ma spesso, più sbrigativamente, anche «lumpen» e «ubriaconi» - protette dalle maschere antigas.

Così è in ogni parte del paese, con le forze dell'ordine che hanno sempre più difficoltà a tenere divise le schiere contrapposte.

Ieri il sindacato bancari ha deciso di unirsi al paro, cominciato il 2 dicembre, proclamando 48 ore di sciopero per oggi e domani. Finora le banche avevano funzionato a orario e sportelli ridotti, provocando file apocalittiche e pazienti. Come quelle che si vedono nei pressi delle stazioni di benzina. «Adesso va meglio, un'ora di fila e via, prima ci volevano anche nove ore per fare il pieno», mi dice uno. Il Venezuela, quinto esportatore mondiale di petrolio, è al paradosso di dover importare benzina. Navi cisterna sono arrivate a Maracaibo dal Brasile, da Trinidad, dalla Russia. Ma almeno la benzina c'è e la domenica i caraqueños possono scendere verso le spiagge per prendere un po' di respiro.

Anche nei mercati va meglio. I prodotti ci sono. Riso importato da Santo Domingo, farina comprata in Colombia. Poi ci sono le bancarelle degli informali, giù nel centro, intorno a Plaza Bolivar, intorno ai palazzi bianchi e coloniali di Miraflores e del Congresso, bastione del chavismo duro. La metà dei venezuelani, si calcola, lavora nell'economia informale e lì non c'è sciopero che tenga. Tutto il centro è il solito brulicare di sempre. Con in più l'ansiosa attesa dei gruppi chavisti più radicali - identificati nei Circoli bolivariani - per il possibile arrivo di qualche esponente dei «vendepatria» o di qualche equipe di Globovision o Venevision che di solito deve fare in fretta a scappare se non vuole vedersi sfasciare le telecamere e prendere sassate.

Il clima è infuocato e le accuse sfrenate. Martedì si apriva l'anno scolastico e c'era molta attesa, da una parte e dall'altra, per vedere se le scuole avrebbero aperto, se i maestri e i bambini sarebbero arrivati. Chavez è andato al liceo Gustavo Machado nel barrio povero di Catia per presenziare alla cerimonia ripresa dall'unica tv controllata dal governo - Canal 8 - e imposta in catena nazionale a tutte le altre, che non possono negarsi perché tira aria di vedersi oscurare il segnale da un momento all'altro. Si è subito aperta una guerra di cifre. Con Chavez a dire che il 90% delle scuole aveva aperto regolarmente e con le tv nemiche a ribattere che il 90-95% delle scuole erano rimaste chiuse e che le uniche erano quelle «bolivariane» (dove i bambini restano fino alle 16) che più che scuole sono centri di indottrinamento politico. «Non avete visto che uno dei bambini aveva una maglietta con l'immagine del Che Guevara?», ha detto una mezzobusto televisiva.

Il Venezuela va alla deriva. Il governo è impegnato in uno sforzo gigantesco per rimettere in piedi almeno l'industria petrolifera, che è la spina dorsale dell'economia e che rappresenta il 25-30% del prodotto interno, il 50% delle entrate e l'80% del valore dell'export. La Coordinadora è impegnata in uno sforzo gigantesco per portare il paese alla paralisi totale, nella speranza di costringere Chavez a dimettersi o di convincere finalmente le forze armate a cacciarlo. Come per la scuole, la guerra delle cifre non conosce freni. Il ministro dell'energia e miniere Rafael Ramirez assicura che la produzione è ripresa e che ha già raggiunto gli 800 mila barili al giorno. Juan Fernandez, il presidente del sindacato Gente de Petrolio e uno dei caporioni dello sciopero, nega e dice che la produzione è di 100 mila barili al giorno, contro i 3 milioni di prima.

Il tavolo dei negoziati sotto la mediazione del presidente dell'Osa Cesar Gaviria non produce risultati ma almeno serve a tenere insieme governo e opposizione ed è rimasto l'unico punto di incontro. E' bloccato da due veti reciproci: Chavez a dire che finché c'è il paro non si negozia, la Coordinadora a replicare che il paro non si negozia. La proposta di Chavez, mai formalizzata con chiarezza, di affidare la mediazione a un gruppo «di paesi amici» sembra nata morta per il no secco del ministro degli esteri messicano, l'ex compagno Jorge Castañeda, che si è consultato al proposito con il segretario di stato americano Colin Powell e ha anche criticato il Brasile per il solo fatto di avere mandato una nave carica di benzina al Venezuela.

«Ni un paso atras». Anzi ogni giorno un passo avanti. Verso dove? L'altra sera a Plaza Altamira, divenuto il cuore dell'opposizione, fra canti, discorsi, sventolio di bandiere e giovani patrioti in Harley Davidson, ho parlato con uno dei militari ribelli che vi stazionano da oltre un mese. «Qui ci sarà molta violenza e le forze armate prenderanno il controllo del paese - dice il generale en rebeldia Felipe Rodriguez -. Se non lo hanno fatto ancora è per via delle divisione politiche dentro alla Coordinadora. Ma lo faranno perché non si può andare avanti così». Così come? «Con 15 mila agenti cubani truccati da allenatori sportivi che Fidel ha mandato per addestrare i circoli bolivariani alla guerriglia urbana e rurale. Con i 400 libici che sono arrivati per preparare atti terroristici. Con i cinesi e i coreani pronti ad azioni mercenarie. Con Chavez che dà i soldi ad al Qaeda». Il brancaleone in tuta mimetica delira, ma i suoi deliri, qui, sono diventati di massa.

Verso dove, dunque? Intanto verso una sempre più probabile, e prossima, proclamazione dello stato di assedio (che l'opposizione ha già detto che sfiderà e che forse desidera). Ma anche oltre. Ha detto Chavez martedì in televisione: «Tutti gli scenari sono possibili. Io ho imparato che in guerra uno deve essere sempre pronto per lo scenario peggiore. Io sono pronto per il peggiore degli scenari peggiori. E in ogni caso noi sconfiggeremo i nemici della patria».

2) Dal sito di Via Alterna.

LA LUCHA DE CARACAS II ¿POR QUE LA URGENCIA DE LOS GOLPISTAS VENEZOLANOS? Por Heinz Dieterich Steffan El gobierno constitucional de Hugo Chávez enfrenta el cuarto asalto al poder en ocho meses. El golpe de Estado del 11 de abril inició la cadena de asonadas que posteriormente se repitieron bajo la figura de los "paros laborales" o "cívicos", todos ellos programados con altos ingredientes de violencia física y manipulación mediática.

Esta alta intensidad golpista contra la democracia venezolana entraña una profunda paradoja. La constitución bolivariana de 1999, que nació del seno de una Asamblea Constituyente y que fue aprobada mediante referendo constituyente por los ciudadanos, es, sin duda, la más democrática de América Latina. Como tal prevé la revocabilidad del mandato de los funcionarios públicos elegidos. Su artículo 72 estipula, que "todos los cargos y magistraturas de elección popular son revocables", transcurrida la mitad del periodo para el cual los funcionarios fueron elegidos.

Aplicándose este artículo al presidente Chávez, se presenta en el mes de agosto del 2003 la posibilidad de removerlo de su investidura, por medio de un referendo revocatorio, dentro de los términos de la Magna Carta. Es decir, existe una vía institucional para el cambio del mandatario -que, según los opositores es el objetivo de sus acciones callejeras- cuya utilización protegería la vida de los ciudadanos, fortalecería el régimen democrático y el ejercicio cívico del poder y mejoraría la situación de la economía nacional.

El presidente Chávez ha afirmado públicamente que se someterá a ese instrumento constitucional y los mediadores internacionales del conflicto, como el Secretario General de la Organización de los Estados Americanos, César Gaviria, han insistido en que el mecanismo adecuado para resolver los problemas del país es la vía institucional. Sin embargo, los "paristas" hacen caso omiso a la constitución y al instituto político hemisférico, insistiendo en una solución extraconstitucional y de violencia callejera.

La interrogante que se deriva de esta situación es la siguiente: ¿Por qué los paristas no pueden esperar ocho meses, para alcanzar su objetivo por vías pacificas e institucionales? Es decir, ¿cuál es la urgencia que les hace actuar desesperadamente en pos del caos, de la ingobernabilidad y del golpe militar, para no llegar a la fecha de agosto?

Las razones de este comportamiento son obvias y pueden sintetizarse en tres. Desde el golpe de Estado del 11 de abril, que fue el punto máximo de su poder, los conspiradores se han debilitado en dos aspectos: (a) han perdido unidad interna al luchar entre sí por el protagonismo y el poder y, más importante, (b) han perdido una parte fundamental de su base social que son sectores de las clases medias. Las 24 horas que estuvieron en el poder, durante el coup d´ état del 11 de abril, bastaron para demostrar a las clases medias que habían sido utilizadas como carne de cañón en un proyecto dictatorial transnacional. Y las asonadas posteriores mediante paros cívicos sólo profundizaron la erosión de legitimidad de la camarilla golpista, apoyada desde el exterior por Otto "Tercer" Reich y el franquismo reciclado.

La segunda razón de la premura golpista es la entrada en vigor de varias leyes importantes, el 1 de enero del 2003, que tocan intereses vitales de la elite económica. Entre ellas, la Ley de Tierras que afecta no sólo a los grandes latifundistas del campo, sino también a los especuladores inmobiliarios y los terrenos baldíos de las zonas urbanas. La Ley de Hidrocarburos es aún más importante porque permitiría desmantelar al Metaestado de la empresa petrolera PdVSA, es decir, la nomenclatura corrupta del petróleo que controla la vida económica del país y que es parte integral del proyecto del Nuevo Orden Energético Mundial de George Bush.

Hoy día, sólo el 20% de los ingresos de esta megaempresa son integrados a las arcas del Estado; el 80% figura como "costos operativos" que enriquecen las cuentas secretas de los beneficiarios de este cáncer económico. El poder de esta robocracia petrolera se ha venido afianzando progresivamente durante las últimas décadas. En 1974, entregó el 80% de los ingresos al Estado y se quedó con el 20% ("costos operativos"). En 1990, la relación se emparejó en un 50 a 50%, y en 1998 había alcanzado ya la proporción del 80 por 20%. Es lógico, que van a luchar hasta la muerte -de la nación- para defender "su" oro negro.

La tercera razón del apremio de los golpistas radica en su duda de poder ganar un referendo revocatorio. El Artículo 72 prevé tres condiciones para revocar el mandato del presidente: (1) Un número no menor del 20% de los electores en la correspondiente circunscripción es necesario para solicitar la convocatoria del referendo. (2) La concurrencia al referendo tiene que ser igual o superior al 25% de los electores inscritos. (3) El número de electores que voten en favor de la revocación tiene que ser igual o mayor al número de electores que mandataron al funcionario. Como Chávez fue elegido con el 57% de los electores, los paristas tendrían que igualar o superar esa votación en el referendo de agosto.

Existe un cuarto agravante para los golpistas. Durante el período para el cual fue elegido el funcionario "no podrá hacerse más de una solicitud de revocación de su mandato", establece la Carta Magna, de tal manera que un eventual fracaso del referendo agotaría toda posibilidad institucional de destituir al gobierno bolivariano.

En la fase actual del conflicto, la nomenclatura de PDVSA y los medios de comunicación masiva venezolanos son los dos frentes de batalla internos en que se decide el destino del experimento bolivariano. Habiendo perdido los conspiradores su núcleo golpista en las Fuerzas Armadas y partes de sus bases sociales en las clases medias, la batalla decisiva de esta asonada se libra en lo que la subversión llama, "un paro activo con un ingrediente de gasolina", es decir, el control de la robocracia petrolera.

Derrotar el intento de estrangulación energética de la subversión abre el camino a la destitución de la dirección de PDVSA y la recuperación de la empresa para la nación. Ésta será la medida del triunfo o del fracaso del gobierno. Toda contemporización con los conspiradores en este punto mantendrá vivo el centro económico-sindical de la contrarrevolución y debilitará al proceso popular.

Vencer a la conspiración con medidas legales, pero firmes, oportunas y audaces, reducirá la hidra interna a una sola cabeza: el pulpo mediático. La política de este pulpo se explica por múltiples intereses económico-políticos de gran envergadura, entre los cuales merecería particular atención el cuarteto de Carlos Andrés Pérez, Gustavo Cisneros (Venevisión), Jesús Polanco (El País) y Felipe González. Pero, este tema será materia de otro análisis.

(Publicado por Rebelión, el 9 de diciembre de 2002 y reproducido por Argenpress.Info)

Comunicati

Da sito Via Alterna.

CARTA DE LA USO AL PRESIDENTE CHÁVEZ Bogotá, diciembre 9 de 2002

Excelentísimo Presidente: HUGO RAFAEL CHAVEZ FRIAS Presidente Constitucional de la República Bolivariana de Venezuela Palacio de Miraflores Caracas, Venezuela

Apreciado Presidente:

Con nuestro afecto y profundo sentimiento solidario de pueblos hermanos bolivarianos, los estamos saludando para expresarle nuestro respaldo a esa gesta patriótica que su gobierno y el pueblo Venezolano adelantan por el bien de su país y que es ejemplo para el continente latinoamericano.

Somos obreros colombianos aglutinados en la Unión Sindical Obrera de la Industria del Petróleo, USO, sindicato de toda la industria petrolera que aglutina trabajadores de empresas multinacionales y de la empresa estatal Ecopetrol. Hemos seguido de cerca la evolución de las políticas de su gobierno a favor de los más necesitados; en defensa del interés nacional y lo que es más importante la defensa por los recursos naturales y la soberanía nacional.

Estas decisiones como es lógico no son compartidas por la oligarquía venezolana, las potencias financieras y empresas multinacionales, que no han escatimado esfuerzos para deslegitimar el gobierno bolivariano de Venezuela, contando para ello desafortunadamente con elementos apátridas que representan los partidos políticos tradicionales de ultraderecha y sectores incrustados en la dirigencia sindical que defienden los intereses de los patronos y no de sus representados.

Compatriota Presidente y pueblo venezolano: cuenten con un puñado de obreros colombianos, con experiencia en la industria petrolera, que se colocan a disposición de su gobierno, en caso de que las circunstancias así lo requieran.

Los sectores golpistas, los cuadros gerenciales y supervisores de PDVSA, deben saber que aquí en Colombia también la revolución bolivariana cuenta con gran simpatía y apoyo.

Convocamos a los petroleros del mundo a respaldar el gobierno y la Constitución Bolivariana de Venezuela, lo mismo que la acción patriótica de la clase trabajadora petrolera con ALI RODRÍGUEZ , presidente de PDVSA a la cabeza por el esfuerzo de restablecer la producción petrolera, fundamental para garantizar el desarrollo del país.

Por las noticias se ha escuchado de algunos gobiernos plantear la convocatoria a la Carta Democrática, figura política internacional que se utiliza sólo en situaciones especiales. En este caso seria innecesaria e inconveniente, hasta este momento el gobierno ha controlado la situación y la OEA, fiel instrumento del imperialismo norteamericano esta jugando su papel mediador, no obstante tenemos nuestras reservas por el carácter sumiso a los Estados Unidos de César Gaviria, su secretario general.

Coincidimos en la lucha contra el modelo de globalización y su política de privatización de las empresas del Estado. Esta es una de las razones de la situación que hoy vive Venezuela y se refleja de igual manera en la situación de guerra que vivimos en Colombia. A la primera empresa estatal, Ecopetrol, se pretende privatizar, como paso previo intentan liquidar nuestro sindicato, la Unión Sindical Obrera USO, y acabar nuestros derechos laborales para facilitarles el camino, razón por la cual estamos preparando una huelga general en la industria del petróleo. Que ironías tiene la vida, en Venezuela el gobierno lucha para evitar la privatización de PDVSA en contra de un sector de la dirigencia política y sindical. En Colombia el sindicato lucha contra el gobierno para que no privaticen a Ecopetrol.

Quedamos a disposición, para cualquier información puede comunicarse con nuestro compañero Daniel Rico Serpa, Teléfono 2 34 47 23, 2 34 42 63, 2 34 45 86 y Fax 2 87 18 61 en Bogotá (Colombia).

Solidariamente,

UNION SINDICAL OBRERA DE LA INDUSTRIA DEL PETRÓLEO, USO

Firmado,

RODOLFO GUTIERREZ NIÑO JUAN RAMON RIOS Presidente Secretario General

HERNANDO HERNÁNDEZ PARDO Secretario Internacional

Notizie sulla Colombia e Latinoamerica, sinistra parlamentare colombiana [http://www.viaalterna.com.co/]

Venezuela (last edited 2008-06-26 10:00:29 by anonymous)