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'''Messico'''

L’ex direttore della soppressa Direzione federale di sicurezza (Dfs) del Messico, Miguel Nazar Haro, è comparso davanti alla ‘Procura speciale per i movimenti politici e sociali del passato’ (Femspp) per il suo presunto coinvolgimento nella cosiddetta ‘guerra sporca’. Era, quest’ultima, un conflitto sociale che negli Anni ’60 e ’70 vide esercito, polizia e gruppi paramilitari contrapporsi violentemente agli studenti e ai movimenti contadini e politici, per stroncare sul nascere la protesta contro l’autoritarismo del Partito rivoluzionario istituzionale del Messico (il cosiddetto ‘Autoritarismo priísta’). Nazar Haro era già comparso lo scorso febbraio davanti alla Femspp per rispondere delle sue presunte responsabilità nel ‘massacro di Tlatelolco’, dal nome della piazza (oggi ribattezzata Piazza delle Tre Culture) di Città del Messico dove il 2 ottobre 1968 il gruppo paramilitare ‘Olimpia’ e l’esercito spararono indiscriminatamente sugli studenti oppositori del governo, dopo aver chiuso tutte le vie di fuga. Fonti ufficiali del tempo parlarono di 37 vittime, tra le quali due soldati. Ma i movimenti per i diritti umani messicani hanno sempre denunciato centinaia di vittime, forse anche 400. Lo scorso febbraio Nazar Haro aveva ottenuto l’interruzione e il rinvio dell’udienza per motivi di salute. Ieri, invece, l’ex direttore della Dfs si è appellato all’articolo 20 della Costituzione, rifiutando di deporre sui fatti del 2 ottobre ’68 e riservandosi i trenta giorni di tempo riconosciutigli dalla legge per ribattere alle domande e alle accuse della Procura generale della Repubblica. Lo scorso 2 ottobre, in occasione del trentacinquesimo anniversario del ‘massacro di Tlatelolco’, i rappresentanti delle associazioni messicane che si occupano della difesa dei diritti umani hanno chiesto al presidente Fox di creare una Commissione della verità finalmente efficace che sostituisca la Femspp – i cui risultati sono considerati da molti deludenti – e faccia chiarezza sui più gravi episodi di sangue che nel passato hanno colpito il Paese.
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Il procuratore generale del Brasile, Claudio Fonteles, si è opposto all’entrata in vigore del decreto presidenziale con il quale il governo di Brasilia ha deciso di autorizzare e regolamentare l’uso di semi geneticamente modificati nel settore agricolo, in particolare per la produzione di soia. Il decreto era stato firmato dal vice presidente José Alencar lo scorso 24 settembre. Fonteles ha chiesto alla Corte suprema di respingere il decreto presidenziale in quanto non terrebbe conto di una decisione di un tribunale nazionale risalente ad alcuni anni fa, secondo cui prima di adottare in agricoltura in Brasile sementi geneticamente modificate sarebbe stato necessario realizzare uno studio indipendente sugli effetti degli organismi transgenici sul suolo e sulla salute umana e animale. Il ‘sì’ del governo alla soia transgenica era stato accolto con soddisfazione dagli agricoltori del sud del Paese e dalle multinazionali produttrici di sementi ‘bio-tech’ (molte delle quali con sede negli Usa), che almeno dal 2001 cercavano di penetrare il ricco mercato brasiliano. Il Paese sudamericano è, infatti, il secondo produttore di soia al mondo, dopo gli Stati Uniti, ed almeno il 30 per cento del raccolto realizzato nel sud del Brasile deriva dall’uso di semi geneticamente modificati importati di contrabbando dall’Argentina. Con questo decreto dunque, secondo il vice presidente brasiliano, il governo recepisce e legalizza un dato di fatto in un momento particolarmente delicato per l’agricoltura, visto “l’arrivo imminente delle piogge”. Dura è stata invece la reazione del partito Verde, della Confederazione dei lavoratori rurali e dei gruppi ambientalisti brasiliani. Greenpeace, in particolare, ha annunciato un ricorso presso i tribunali competenti per bloccare l’attuazione della nuova normativa che legalizza l’uso degli organismi transgenici senza averne studiato gli effetti sul suolo e sulla salute umana. In questo senso, l’unica apertura prevista dal decreto è una norma che prevede il risarcimento per quei produttori che dovessero subire l’inquinamento delle loro terre o ai consumatori che dovessero manifestare danni alla salute dopo aver mangiato soia modificata. Il discusso decreto dovrà essere trasformato in legge dal Congresso brasiliano Il procuratore generale del Brasile, Claudio Fonteles, si è opposto all’entrata in vigore del decreto presidenziale con il quale il governo di Brasilia ha deciso di autorizzare e regolamentare l’uso di semi geneticamente modificati nel settore agricolo, in particolare per la produzione di soia. Il decreto era stato firmato dal vice presidente José Alencar lo scorso 24 settembre. Fonteles ha chiesto alla Corte suprema di respingere il decreto presidenziale in quanto non terrebbe conto di una decisione di un tribunale nazionale risalente ad alcuni anni fa, secondo cui prima di adottare in agricoltura in Brasile sementi geneticamente modificate sarebbe stato necessario realizzare uno studio indipendente sugli effetti degli organismi transgenici sul suolo e sulla salute umana e animale. Il ‘sì’ del governo alla soia transgenica era stato accolto con soddisfazione dagli agricoltori del sud del Paese e dalle multinazionali produttrici di sementi ‘bio-tech’ (molte delle quali con sede negli Usa), che almeno dal 2001 cercavano di penetrare il ricco mercato brasiliano.   Dura è stata invece la reazione del partito Verde, della Confederazione dei lavoratori rurali e dei gruppi ambientalisti brasiliani. Greenpeace, in particolare, ha annunciato un ricorso presso i tribunali competenti per bloccare l’attuazione della nuova normativa che legalizza l’uso degli organismi transgenici senza averne studiato gli effetti sul suolo e sulla salute umana. In questo senso, l’unica apertura prevista dal decreto è una norma che prevede il risarcimento per quei produttori che dovessero subire l’inquinamento delle loro terre o ai consumatori che dovessero manifestare danni alla salute dopo aver mangiato soia modificata. Il discusso decreto dovrà essere trasformato in legge dal Congresso brasiliano
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“La città di La Paz è isolata dal resto del Paese mentre ormai sempre più categorie di lavoratori stanno scendendo in piazza per manifestare contro la politica economica del presidente Gonzalo Sánchez de Lozada. L’aria è tesa e si respira chiaramente il pericolo di un golpe”. Precipita la situazione nella capitale boliviana dove, secondo una fonte umanitaria della MISNA, “tutte le vie di accesso sono state chiuse dai manifestanti. Come minacciato, da oggi nuove categorie di lavoratori si sono aggiunte agli iscritti alla Cob (Centrale operaia della Bolivia) che da lunedì scorso protestano contro la decisione del governo di esportare gas grezzo in Messico e Stati Uniti attraverso un porto cileno. Quest’oggi anche i lavoratori ‘sin tierra’ hanno interrotto il dialogo con il governo e sono scesi in piazza nella capitale insieme a dipendenti pubblici, pensionati, insegnanti e studenti, in una grande manifestazione cominciata alle 10,30 locali (le 16,30 in Italia, n.d.r.). A Santa Cruz è in svolgimento lo sciopero generale. A Cochabamba, la seconda città del Paese, i ‘campesinos’ sono in agitazione per protestare contro le importazioni di prodotti agricoli a basso costo da Cile e Argentina, che rendono poco competitivi sul mercato interno i loro prodotti. Nel dipartimento meridionale di Oruro i minatori hanno incrociato i picconi e minacciano di marciare su La Paz”. Nessun settore della società, secondo l’interlocutore della MISNA, sembra tirarsi indietro: “Gli studenti universitari sono scesi in piazza contro la legge 2.115, che ha istituito l’università pubblica di El Alto, il centro della protesta nel Paese, senza però prevedere l’autonomia per la quale oggi protestano. Anche i pensionati scenderanno in strada oggi alle 17,00 (le 23,00 ora italiana, n.d.r.), sempre a La Paz, mentre la Cob ha annunciato da oggi scioperi generali nelle capitali di tutti e nove i dipartimenti in cui è suddiviso amministrativamente il Paese”. La gravità della situazione non è sfuggita alla Chiesa cattolica. Ieri, nel corso dell’omelia domenicale, l’arcivescovo di Santa Cruz, il cardinale Julio Terrazas, ha detto che “la pace ci sta sfuggendo di mano perché le componenti sociali sanno emettere solo parole di condanna e non di dialogo”. La situazione, insomma, precipita, anche se il momento di tensione più alto è stato raggiunto nel dipartimento dello Yungas, dove “l’importantissimo ponte di Santa Barbara, che collega la regione con La Paz, – riferisce la fonte della MISNA – è bloccato da quattro giorni da un gruppo di contadini guidati da Felipe Quispe (detto ‘El Mallku’, il Condor), segretario della Confederazione sindacale unica dei lavoratori contadini della Bolivia (Csutcb) e deputato del Movimento indigeno Pachakuti (Mip). Qui, ieri, si sono confrontati circa duecento autotrasportatori, fermi ormai da giorni e irritati per la mancata mediazione, annunciata dal governo, del ministro dell’agricoltura Guido Añez, e gli uomini di Quispe. Della rissa che è scoppiata sono rimaste ferite almeno quattro persone, una delle quali sarebbe in coma. I ‘campesinos’ di Quispe hanno vinto il confronto e gli autotrasportatori, alcuni dei quali trasportano passeggeri, altri merci deperibili, sono ancora bloccati. Da oggi è atteso che si aggiungano agli uomini di Quispe anche quelli di Román Loayza, leader di una delle correnti della Csutcb. La cosa più inquietante, in tutto questo, è che né polizia né militari, che pure presidiano la zona, hanno mosso un dito per separare trasportatori e contadini”. L’atteggiamento fin qui tenuto da esercito e polizia ha destato dubbi tra gli osservatori sul posto. La scorsa settimana la sola polizia è intervenuta per contrastare, con l’uso dei manganelli e del gas lacrimogeno, le tante manifestazioni che hanno interessato tutto il Paese. I militari, che lo scorso febbraio si erano duramente scontrati proprio con la polizia in rivolta a La Paz, si sono limitati a prendere il controllo dell’aeroporto internazionale di El Alto (che è ancora la base della Cob e degli altri gruppi che si oppongono alle politiche del governo) e a circondare i palazzi presidenziali. “Ormai, però, non si può escludere nulla. – conclude la fonte – I bianchi che vivono a La Paz, la maggior parte dei quali detengono le leve del potere economico, temono sempre più il colpo di stato. Difficile dire da quale parte della società possa venire. I cocaleros non sono abbastanza forti né armati; l’esercito è ancora in larga parte fedele all’esecutivo di Sánchez de Lozada. Ma se la polizia decidesse di allearsi con settori dell’esercito più critici, sebbene minoritari, a quel punto non si potrebbe escludere nulla. In ogni caso, in pochi oggi scommetterebbero sulle possibilità del capo dello Stato di portare a conclusione il suo mandato”. “La città di La Paz è isolata dal resto del Paese mentre ormai sempre più categorie di lavoratori stanno scendendo in piazza per manifestare contro la politica economica del presidente Gonzalo Sánchez de Lozada. L’aria è tesa e si respira chiaramente il pericolo di un golpe”. Precipita la situazione nella capitale boliviana dove,tutte le vie di accesso sono state chiuse dai manifestanti. Come minacciato, da oggi nuove categorie di lavoratori si sono aggiunte agli iscritti alla Cob (Centrale operaia della Bolivia) che da lunedì scorso protestano contro la decisione del governo di esportare gas grezzo in Messico e Stati Uniti attraverso un porto cileno. Ieri anche i lavoratori ‘sin tierra’ hanno interrotto il dialogo con il governo e sono scesi in piazza nella capitale insieme a dipendenti pubblici, pensionati, insegnanti e studenti, in una grande manifestazione cominciata alle 10,30 locali (le 16,30 in Italia, n.d.r.). A Santa Cruz è in svolgimento lo sciopero generale. A Cochabamba, la seconda città del Paese, i ‘campesinos’ sono in agitazione per protestare contro le importazioni di prodotti agricoli a basso costo da Cile e Argentina, che rendono poco competitivi sul mercato interno i loro prodotti. Nel dipartimento meridionale di Oruro i minatori hanno incrociato i picconi e minacciano di marciare su La Paz”. Nessun settore della società sembra tirarsi indietro: “Gli studenti universitari sono scesi in piazza contro la legge 2.115, che ha istituito l’università pubblica di El Alto, il centro della protesta nel Paese, senza però prevedere l’autonomia per la quale oggi protestano. Anche i pensionati scenderanno in strada oggi alle 17,00 (le 23,00 ora italiana, n.d.r.), sempre a La Paz, mentre la Cob ha annunciato da oggi scioperi generali nelle capitali di tutti e nove i dipartimenti in cui è suddiviso amministrativamente il Paese”. La scorsa settimana la sola polizia è intervenuta per contrastare, con l’uso dei manganelli e del gas lacrimogeno, le tante manifestazioni che hanno interessato tutto il Paese. I militari, che lo scorso febbraio si erano duramente scontrati proprio con la polizia in rivolta a La Paz, si sono limitati a prendere il controllo dell’aeroporto internazionale di El Alto (che è ancora la base della Cob e degli altri gruppi che si oppongono alle politiche del governo) e a circondare i palazzi presidenziali. “Ormai, però, non si può escludere nulla. – conclude la fonte – I bianchi che vivono a La Paz, la maggior parte dei quali detengono le leve del potere economico, temono sempre più il colpo di stato. Difficile dire da quale parte della società possa venire. I cocaleros non sono abbastanza forti né armati; l’esercito è ancora in larga parte fedele all’esecutivo di Sánchez de Lozada. Ma se la polizia decidesse di allearsi con settori dell’esercito più critici, sebbene minoritari, a quel punto non si potrebbe escludere nulla. In ogni caso, in pochi oggi scommetterebbero sulle possibilità del capo dello Stato di portare a conclusione il suo mandato”.
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'''USA'''
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Lo scrittore e regista americano Michael Moore, autore del documentario 'Bowling for Columbine', premiato agli Oscar, ha un solo punto in comune con il presidente americano George W. Bush: come l'inquilino della Casa Bianca, Moore auspica un cambiamento di regime. Ma contrariamente a quelle pronunciate da Bush in questi ultimi mesi, le parole di Moore non si rivolgono all'Iraq, ma agli Stati Uniti, guidati appunto da George W. Esce oggi nelle librerie americane 'Dude, where's my Country?' (Ehi, dov'e' finito il mio paese?), l'ultimo libro di Moore, che - come accennato e come spiega lo stesso autore sul suo sito web - ha un solo obiettivo principale: ''Il cambiamento di regime'' negli Usa. Negli Stati Uniti si votera' per le presidenziali nel novembre prossimo, e Bush si e' ricandidato, chiedendo un nuovo mandato di quattro anni alla Casa Bianca. Moore ha annunciato nei giorni scorsi l'intenzione di appoggiare, tra i dieci candidati alla nomination democratica, l'ex generale Wesley Clarke, l'uomo della guerra in ex Jugoslavia, contrario invece al conflitto iracheno. . Tra le scoperte di Moore - come ha raccontato oggi il New York Times - c'e' la presenza, nella coalizione dei volenterosi costruita de Bush per l'Iraq, dell'inutile arcipelago delle Palau, nel Pacifico. C'e' ''ottima tapioca ed eccellenti noci di cocco, ma sfortunatamente neppure un soldato'', scrive Moore. Lo scrittore regista rivela poi che l'Usa Patriot Act, la legge antiterrorismo varata dopo gli attacchi dell'11 settembre, e' illegibile e incomprensibile. Moore racconta anche che nei moduli per ottenere il rimborso delle tasse c'e' la casella ''un milione di dollari'', destinata probabilmente agli amici di Bush. Moore rivela inoltre che ci fu una missione di Taleban in Texas, nel 1997, per questioni legati al petrolio. L'autore di 'Bowling for Columbine' si chiede infine come mai le immagini dell'incontro, 20 anni or sono, tra il segretario alla difesa Donald Rumsfeld e l'ex dittatore iracheno Saddam Hussein non sono quasi mai state trasmesse dalle tv americane. Tra i consigli prodigati da Moore, ci sono per esempio quelli - a dir vero utilissimi - su come rivolgersi ''al cognato, conservatore''. Per esempio, basta ''riconoscere che gli uomini e le donne sono diversi, che gli animali non hanno diritti, e che un po' di sole fa bene alla salute''. Soprattutto non discutere di politica. '''Messico'''

L’ex direttore della soppressa Direzione federale di sicurezza (Dfs) del Messico, Miguel Nazar Haro, è comparso davanti alla ‘Procura speciale per i movimenti politici e sociali del passato’ (Femspp) per il suo presunto coinvolgimento nella cosiddetta ‘guerra sporca’. Era, quest’ultima, un conflitto sociale che negli Anni ’60 e ’70 vide esercito, polizia e gruppi paramilitari contrapporsi violentemente agli studenti e ai movimenti contadini e politici, per stroncare sul nascere la protesta contro l’autoritarismo del Partito rivoluzionario istituzionale del Messico (il cosiddetto ‘Autoritarismo priísta’). Nazar Haro era già comparso lo scorso febbraio davanti alla Femspp per rispondere delle sue presunte responsabilità nel ‘massacro di Tlatelolco’, dal nome della piazza (oggi ribattezzata Piazza delle Tre Culture) di Città del Messico dove il 2 ottobre 1968 il gruppo paramilitare ‘Olimpia’ e l’esercito spararono indiscriminatamente sugli studenti oppositori del governo, dopo aver chiuso tutte le vie di fuga. Fonti ufficiali del tempo parlarono di 37 vittime, tra le quali due soldati. Ma i movimenti per i diritti umani messicani hanno sempre denunciato centinaia di vittime, forse anche 400. Lo scorso febbraio Nazar Haro aveva ottenuto l’interruzione e il rinvio dell’udienza per motivi di salute. Ieri, invece, l’ex direttore della Dfs si è appellato all’articolo 20 della Costituzione, rifiutando di deporre sui fatti del 2 ottobre ’68 e riservandosi i trenta giorni di tempo riconosciutigli dalla legge per ribattere alle domande e alle accuse della Procura generale della Repubblica. Lo scorso 2 ottobre, in occasione del trentacinquesimo anniversario del ‘massacro di Tlatelolco’, i rappresentanti delle associazioni messicane che si occupano della difesa dei diritti umani hanno chiesto al presidente Fox di creare una Commissione della verità finalmente efficace che sostituisca la Femspp – i cui risultati sono considerati da molti deludenti – e faccia chiarezza sui più gravi episodi di sangue che nel passato hanno colpito il Paese.

Perquisizioni

Perquisite questa mattina le abitazioni di esponenti del Corto Circuito di roma e di altri aderenti all'associazione Action, in treòazione all'occupazione di alcuni stabili a roma. Alle 12.30, la conferenza stampa dei perquisiti.

Arresti

Udienze questa mattina per decidere la sorte dei due ragazzi ancora in carcere dopo la maniestazione di sabato

Palestina

Israele è pronto a colpire i suoi nemici "ovunque e comunque". Protetto da imponenti misure di sicurezza, per la commemorazione dei 30 anni della guerra dello Yom Kippur, il premier israeliano Ariel Sharon non cede di fronte alla condanna internazionale pressoché unanime del raid in territorio siriano. Da Damasco il presidente siriano Assad risponde accusando Israele di innescare una pericolosa escalation di violenza in Medio Oriente: "Israele vuole trascinare in guerra la Siria e il resto della regione".

In una lunga intervista al quotidiano arabo al Hayat, Assad spiega: "E' innegabile che il ruolo svolto della Siria nella regione è pregiudizievole al governo israeliano . Noi facciamo del male a questo governo e quanto accaduto non fa che rafforzare la determinazione della Siria ad avere un ruolo ancora più efficace e influente nella regione". E ancora: "Il governo Sharon vive per la guerra e non vi è una sola persona al mondo che creda che la pace sia possibile con un tale governo". Per questo, ha affermato il presidente siriano, la Road Map "è nata già morta".

Assad ha avuto parole dure anche contro gli americani, affermando "che avranno tutto da perdere da un boicottaggio contro la Siria". Il riferimento e' al "Siria accountability act", la legge che verrà discussa al Congresso per varare sanzioni contro Damasco a causa del suo sostegno al terrorismo e dell'occupazione del Libano. Il presidente siriano ha poi dichiarato che non intende espellere le organizzazioni palestinesi dal Paese: "Non vogliamo espellerli perché non nuociono alla Siria, non hanno violato leggi siriane e soprattutto non sono terroristi". Gli Stati Uniti hanno chiesto la chiusura degli uffici a Damasco di diverse organizzazioni estremiste palestinesi, fra cui Hamas e la Jihad islamica. Quest'ultima organizzazione ha rivendicato l'attacco di sabato ad Haifa e Israele ha affermato che obiettivo del raid era un campo d'addestramento della Jihad.

Iraq

Iraq. Attacco al ministero degli Esteri, salta in aria un'auto. al Jazeera: usati anche missili. Nessun ferito La Tv satellitare araba al-Jazeera cita fonti della polizia irachena: l'attacco al ministero è avvenuto con missili di tipo Hawn e ha scatenato una sparataoria nella zona, pur senza causare feriti. Il palazzo del ministero degli Esteri è vicino ad un complesso di edifici che ospita il quartier generale americano a Bagdad.

  • Non ci sono, per ora, vittime, secondo quanto hanno confermato militari di guardia al ministero. L'esplosione è avvenuta in un'auto parcheggiata presso il palazzo del ministero.

Libano

Un bambino libanese di quattro anni è stato ucciso questa notte da una esplosione in un villaggio situato vicino alla frontiera con Israele. Il fratello gemello è rimasto ferito. Secondo i servizi di sicurezza libanesi e gli abitanti del villaggio di Houla, Ali Yassin è stato ucciso e il gemello ferito, ma non si sa ancora qual è la causa precisa. La deflagrazione potrebbe essere stata causata dalla caduta di un obice anti-aereo sparato dal Libano o se si è trattato di un proiettile diretto verso Israele, secondo le autorità libanesi. L'esercito israeliano afferma che almeno tre colpi di mortaio sono stati sparati dal Libano verso il nordest di Israele stanotte. Secondo la radio israeliana, il bambino libanese è stato ucciso da uno di questi tiri. Nessun ferito è stato segnalato da parte israeliana. Qualche minuto dopo l'esplosione, gli aerei e gli elicotteri israeliani hanno compiuto voli di ricognizione al di sopra della zona di frontiera vicino a Houla, secondo gli abitanti del villaggio.

medio oriente

Sale la tensione fra Israele e Libano, dopo il raid israeliano sulla Siria. Fonti della sicurezza di Beirut accusano gli israeliani di aver bombardato la periferia di Kfar Schouba, una cittadina nel Libano meridionale, e di aver aperto il fuoco contro una strada presso il confine. L'esercito israeliano ha smentito di aver compiuto un raid aereo contro il Libano e ammette la perdita di un soldato caduto ieri pomeriggio in una sparatoria alla frontiera libanese, colpito da un attacco degli Hezbollah. Hezbollah, organizzazione di guerriglia di confessione sciita, sostenuta da Siria ed Iran, ha smentito il proprio coinvolgimento nella sparatoria, con un comunicato diramato a Beirut. Fonti libanesi hanno smentito questa versione, affermando che sono stati i soldati israeliani ad aprire il fuoco verso un'auto e un mini bus. Uno dei due veicoli, hanno riferito, è stato colpito, ma non ci sono stati feriti. Un ufficiale delle forze Onu in Libano, da parte sua, ha dichiarato che un'autobotte dell'Unifil, chiaramente riconoscibile, è stata colpita da tre pallottole provenienti dalla parte israeliana del confine. Sul piano politico, in sede ONU salta il voto al Consiglio di Sicurezza sulla condanna del raid israeliano in territorio siriano e il presidente americano George W. Bush lascia intendere di poter arrivare fino al veto ONU per impedire che passi la bozza di risoluzione siriano-araba. Israele reagisce accentuando la pressione sul presidente palestinese Yasser Arafat. Ieri sera Raanan Gissin, consigliere di alto grado del primo ministro israeliano Ariel Sharon, ha detto che il governo non ha ancora deciso come e quando "allontanarlo" dalla sua terra, ma che le ore del leader Anp a Ramallah sono contate. L'attacco di sabato, con le sue 19 vittime, ha spiegato Gissin, convince le autorità israeliane ad accelerare i tempi di attuazione della decisione approvata in linea di massima il mese scorso: l'esilio del presidente palestinese per allontanarlo dalla sua terra e dalla gestione del potere. L'espulsione di Yasser Arafat dai Territori palestinesi sarebbe "un atto di terrorismo" condannato dalla comunità internazionale, replica a distanza il presidente egiziano Hosni Mubarak nel trentesimo anniversario dell'inizio della Guerra del Kippur del 1973, quando Egitto e Siria lanciarono un attacco per riconquistare i territori persi nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni. "Se Israele metterà in atto le sue minacce, non otterra' il suo scopo...questo atto sarebbe considerato illegale e terrorista e condannato dall'intera comunita' internazionale non porterebbe ad altro risultato che l'aumento di un clima di violenza e disperazione", ha spiegato Mubarak.

turchia

Il governo turco vuole mandare truppe in Iraq e per questo ha deciso di presentare una richiesta formale al parlamento. La decisione del gabinetto guidato da Tayyip Erdogan e' stata presa per andare incontro alle richieste degli Stati Uniti, sei mesi dopo che Ankara aveva rifiutato alle forze armate di Washington il permesso di utilizzare le basi turche per aprire il fronte settentrionale nella guerra contro Saddam Hussein. Compiacimento per l'iniziativa del governo turco e' stata espressa stasera stessa a Washington dal portavoce del Dipartimento di Stato americano, Richard Boucher: "La Turchia - ha detto - ha un ruolo importante da svolgere nella stabilizzazione dell'Iraq. Proseguiremo le discussioni con le autorita' turche sull'eventuale dispiegamento militare, qualora il parlamento approvera' la proposta governativa". Secondo Cemil Cicek, ministro della Giustizia turco, una risposta del parlamento potrebbe arrivare gia' domani. Cicek ha detto che la mozione presentata ai deputati non specifica quanti soldati dovranno essere inviati ne' in quale regione irachena. Tuttavia, ha sottolineato, l'approvazione della richiesta permetterebbe al governo turco di negoziare con gli Stati Uniti su alcune questioni rimaste in sospeso.

USA

Per smaltire il suo surplus, il Pentagono aveva messo in vendita su Internet materiale da laboratorio che poteva servire a realizzare armi biologiche. Lo ha scoperto un'agenzia di controllo del Congresso degli Stati Uniti, secondo quanto ha riferito la Cnn. L'ufficio del Pentagono che aveva messo sul mercato a prezzi scontati incubatrici, centrifughe e tute protettive, ha interrotto la vendita il 19 settembre. Il General accounting office (Gao) che ha denunciato il fatto, ha potuto acquistare tramite una compagnia fittizia un'incubatrice, una centrifuga, un apparecchio per asciugare il materiale biologico e fra 300 e 400 tute protettive. Il tutto al prezzo di soli 4mila dollari, contro i 46mila del prezzo originale. Secondo la bozza di rapporto del Gao, alcune delle tute erano state vendute dopo che il Pentagono aveva scoperto che erano difettose.

Brasile

Il procuratore generale del Brasile, Claudio Fonteles, si è opposto all’entrata in vigore del decreto presidenziale con il quale il governo di Brasilia ha deciso di autorizzare e regolamentare l’uso di semi geneticamente modificati nel settore agricolo, in particolare per la produzione di soia. Il decreto era stato firmato dal vice presidente José Alencar lo scorso 24 settembre. Fonteles ha chiesto alla Corte suprema di respingere il decreto presidenziale in quanto non terrebbe conto di una decisione di un tribunale nazionale risalente ad alcuni anni fa, secondo cui prima di adottare in agricoltura in Brasile sementi geneticamente modificate sarebbe stato necessario realizzare uno studio indipendente sugli effetti degli organismi transgenici sul suolo e sulla salute umana e animale. Il ‘sì’ del governo alla soia transgenica era stato accolto con soddisfazione dagli agricoltori del sud del Paese e dalle multinazionali produttrici di sementi ‘bio-tech’ (molte delle quali con sede negli Usa), che almeno dal 2001 cercavano di penetrare il ricco mercato brasiliano. Dura è stata invece la reazione del partito Verde, della Confederazione dei lavoratori rurali e dei gruppi ambientalisti brasiliani. Greenpeace, in particolare, ha annunciato un ricorso presso i tribunali competenti per bloccare l’attuazione della nuova normativa che legalizza l’uso degli organismi transgenici senza averne studiato gli effetti sul suolo e sulla salute umana. In questo senso, l’unica apertura prevista dal decreto è una norma che prevede il risarcimento per quei produttori che dovessero subire l’inquinamento delle loro terre o ai consumatori che dovessero manifestare danni alla salute dopo aver mangiato soia modificata. Il discusso decreto dovrà essere trasformato in legge dal Congresso brasiliano

Bolivia

“La città di La Paz è isolata dal resto del Paese mentre ormai sempre più categorie di lavoratori stanno scendendo in piazza per manifestare contro la politica economica del presidente Gonzalo Sánchez de Lozada. L’aria è tesa e si respira chiaramente il pericolo di un golpe”. Precipita la situazione nella capitale boliviana dove,tutte le vie di accesso sono state chiuse dai manifestanti. Come minacciato, da oggi nuove categorie di lavoratori si sono aggiunte agli iscritti alla Cob (Centrale operaia della Bolivia) che da lunedì scorso protestano contro la decisione del governo di esportare gas grezzo in Messico e Stati Uniti attraverso un porto cileno. Ieri anche i lavoratori ‘sin tierra’ hanno interrotto il dialogo con il governo e sono scesi in piazza nella capitale insieme a dipendenti pubblici, pensionati, insegnanti e studenti, in una grande manifestazione cominciata alle 10,30 locali (le 16,30 in Italia, n.d.r.). A Santa Cruz è in svolgimento lo sciopero generale. A Cochabamba, la seconda città del Paese, i ‘campesinos’ sono in agitazione per protestare contro le importazioni di prodotti agricoli a basso costo da Cile e Argentina, che rendono poco competitivi sul mercato interno i loro prodotti. Nel dipartimento meridionale di Oruro i minatori hanno incrociato i picconi e minacciano di marciare su La Paz”. Nessun settore della società sembra tirarsi indietro: “Gli studenti universitari sono scesi in piazza contro la legge 2.115, che ha istituito l’università pubblica di El Alto, il centro della protesta nel Paese, senza però prevedere l’autonomia per la quale oggi protestano. Anche i pensionati scenderanno in strada oggi alle 17,00 (le 23,00 ora italiana, n.d.r.), sempre a La Paz, mentre la Cob ha annunciato da oggi scioperi generali nelle capitali di tutti e nove i dipartimenti in cui è suddiviso amministrativamente il Paese”. La scorsa settimana la sola polizia è intervenuta per contrastare, con l’uso dei manganelli e del gas lacrimogeno, le tante manifestazioni che hanno interessato tutto il Paese. I militari, che lo scorso febbraio si erano duramente scontrati proprio con la polizia in rivolta a La Paz, si sono limitati a prendere il controllo dell’aeroporto internazionale di El Alto (che è ancora la base della Cob e degli altri gruppi che si oppongono alle politiche del governo) e a circondare i palazzi presidenziali. “Ormai, però, non si può escludere nulla. – conclude la fonte – I bianchi che vivono a La Paz, la maggior parte dei quali detengono le leve del potere economico, temono sempre più il colpo di stato. Difficile dire da quale parte della società possa venire. I cocaleros non sono abbastanza forti né armati; l’esercito è ancora in larga parte fedele all’esecutivo di Sánchez de Lozada. Ma se la polizia decidesse di allearsi con settori dell’esercito più critici, sebbene minoritari, a quel punto non si potrebbe escludere nulla. In ogni caso, in pochi oggi scommetterebbero sulle possibilità del capo dello Stato di portare a conclusione il suo mandato”.

Messico

L’ex direttore della soppressa Direzione federale di sicurezza (Dfs) del Messico, Miguel Nazar Haro, è comparso davanti alla ‘Procura speciale per i movimenti politici e sociali del passato’ (Femspp) per il suo presunto coinvolgimento nella cosiddetta ‘guerra sporca’. Era, quest’ultima, un conflitto sociale che negli Anni ’60 e ’70 vide esercito, polizia e gruppi paramilitari contrapporsi violentemente agli studenti e ai movimenti contadini e politici, per stroncare sul nascere la protesta contro l’autoritarismo del Partito rivoluzionario istituzionale del Messico (il cosiddetto ‘Autoritarismo priísta’). Nazar Haro era già comparso lo scorso febbraio davanti alla Femspp per rispondere delle sue presunte responsabilità nel ‘massacro di Tlatelolco’, dal nome della piazza (oggi ribattezzata Piazza delle Tre Culture) di Città del Messico dove il 2 ottobre 1968 il gruppo paramilitare ‘Olimpia’ e l’esercito spararono indiscriminatamente sugli studenti oppositori del governo, dopo aver chiuso tutte le vie di fuga. Fonti ufficiali del tempo parlarono di 37 vittime, tra le quali due soldati. Ma i movimenti per i diritti umani messicani hanno sempre denunciato centinaia di vittime, forse anche 400. Lo scorso febbraio Nazar Haro aveva ottenuto l’interruzione e il rinvio dell’udienza per motivi di salute. Ieri, invece, l’ex direttore della Dfs si è appellato all’articolo 20 della Costituzione, rifiutando di deporre sui fatti del 2 ottobre ’68 e riservandosi i trenta giorni di tempo riconosciutigli dalla legge per ribattere alle domande e alle accuse della Procura generale della Repubblica. Lo scorso 2 ottobre, in occasione del trentacinquesimo anniversario del ‘massacro di Tlatelolco’, i rappresentanti delle associazioni messicane che si occupano della difesa dei diritti umani hanno chiesto al presidente Fox di creare una Commissione della verità finalmente efficace che sostituisca la Femspp – i cui risultati sono considerati da molti deludenti – e faccia chiarezza sui più gravi episodi di sangue che nel passato hanno colpito il Paese.

gror031007 (last edited 2008-06-26 10:05:11 by anonymous)