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Presentazione del rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia

Redattore Sociale, 16 novembre 2004 Alla fine del 2003 erano 54.237 i detenuti nella carceri italiane, dato in flessione dopo l’agosto 2003 quando si è raggiunta la quota massima di 56.751 detenuti, ma già in ripresa nei primi mesi del 2004: 55.392 i detenuti di febbraio, cifra che già supera i livelli del novembre dell’anno precedente. Lo rivela il "Terzo rapporto sulle condizioni di detenzione" realizzato dall’Associazione Antigone e presentato stamane a Roma, "esito di un faticoso lavoro di alcune decine di operatori che volontariamente, tra un impegno di lavoro e l’altro, hanno trovato il tempo di girare per luoghi di detenzione, di parlare con operatori, volontari o professionali che fossero, di raccogliere dati, informazioni, notizie utili sulla realtà della privazione della libertà in Italia".

Ne emerso un quadro difficile, come sottolinea Stefano Anastasia, Presidente nazionale di Antigone: "Abbandonate a se stesse, le carceri italiane sono tornate – senza retorica e falsi infingimenti – a essere pura sofferenza, pena per la pena, senza neanche più quelle "pietose bugie" (la finalità rieducativa della pena, la missione trattamentale dell’istituzione, il reinserimento dei detenuti, ecc.) di cui qualche tempo fa tra noi discutevamo. In carcere ci si va perché si deve e non resta che contare i giorni, sperando di cavarsela in buona salute".

Il rapporto segnala che la popolazione detenuta "ha smesso di crescere a dismisura": diminuiscono progressivamente gli ingressi in carcere e le denunce per reati, mentre crescono le presenze. "Si direbbe che il carcere tenda a riprodursi e ad ingigantirsi in quanto tale, come retorica e funzionalità istituzionale del controllo sociale, indipendentemente dall’andamento della criminalità in sé, e addirittura dell’andamento repressivo contro la stessa", sottolinea il rapporto. Ma ecco alcune cifre significative.

Sovraffollamento. Rispetto alla capienza regolamentare, l’indice di sovraffollamento è superiore di circa il 30%: 55.000 presenti rispetto ai 41.000 posti regolamentari circa, con un indice di 1,31. Il Veneto, il Friuli, la Lombardia, il Piemonte, la Valle d’Aosta, l’Emilia-Romagna, la Puglia le regioni più sovraffollate; in Veneto, in Trentino, in Friuli e in Lombardia si supera addirittura la "capienza tollerabile".

Reati. La percentuale più elevata riguarda i reati contro il patrimonio (30,1%) con una crescita rispetto al 2001 di 5 punti percentuali; seguono le violazioni alla legge sulle armi (17,6%), con un aumento del 10,5%, lo spaccio di stupefacenti (15,3%), però con una riduzione del 5%, i reati contro la persona, il cui valore resta sostanzialmente stabile (14,5%), e i reati contro la fede pubblica (4,1%). Secondo il rapporto la crescita di detenuti stranieri non può essere messa in relazione all’aumento di alcuni reati, addebitabili in percentuali alte agli italiani. Solo nei reati contro la persona e nella violazione della legge sugli stupefacenti, reati in decrescita, infatti gli stranieri superano gli italiani.

La pena. I detenuti definitivi salgono a oltre il 60%, con un salto in avanti rispetto a due anni prima di ben 5 punti percentuali. A ciò corrisponde l’abbassamento del numero dei detenuti in attesa di giudizio (-4,27%); 12.020 le persone in attesa di primo giudizio (21,7%), 5.803 gli appellanti. "Da un lato, pur restando in Italia la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio intorno al 40% (un ben poco invidiabile primato a livello europeo) – commenta Antigone - non si può che apprezzare il fatto che si incarceri meno senza giudizio definitivo; dall’altro ciò è segnale, a fronte del persistente sovraffollamento, tanto della tendenza a infliggere condanne più lunghe, quanto dell’indebolirsi dei diritti alla difesa, venendo a ridursi l’opportunità di ricorrere contro le sentenze di primo grado". In aumento dell’8% la fascia delle condanne medie (3-6 anni), il che appare spiegare secondo il rapporto, "il mantenimento di un elevatissimo numero di detenuti, nonostante la decrescita degli ingressi in carcere". In lieve crescita (2%) le condanne oltre i 10 anni, mentre scende la classe delle condanne medio-alte (-6%). Permane infine un’elevata percentuale di soggetti (29%) che, avendo avuto una condanna inferiore ai tre anni, potrebbero fruire di una misura alternativa.

Misure alternative. Quasi raddoppiate negli ultimi due anni le misure alternative applicate. Erano nel 2001 25.387, nel 2003, pur mancando alcune voci (libertà vigilata, sanzioni sostitutive), raggiungono quota 48.215. Tra le voci più rappresentate l’affidamento in prova dalla libertà (19.398 casi), che insieme ai 4.023 casi di affidamento dalla detenzione porta la concessione di questa misura a un incremento di quasi 10.000 casi rispetto a due anni prima. Seguono le detenzioni domiciliari (13.914 casi), tra i quali spicca la detenzione domiciliare dalla libertà (7.820 casi), l’affidamento speciale per tossicodipendenti (6.883) di cui 5.278 dalla libertà; la semilibertà registra invece la quota più bassa, con 3.614 casi, di cui l’85% circa concessi dalla detenzione.

"Il numero dei soggetti controllato all’esterno si sta avvicinando in modo allarmante a quello dei reclusi - sottolinea Antigone -. Non siamo certo ancora ai livelli degli Stati Uniti, dove il numero dei controllati esterni, nelle varie forme, supera di tre volte quello dei detenuti, ma la tendenza è evidente e rischia di porsi sulla stessa linea. Evidentemente le cosiddette "misure alternative" non si pongono in un rapporto di reale alternativa al carcere, ma vengono a costituire un’area collaterale e complementare di estensione complessiva del controllo penale, quasi che questo si servisse di tutti gli strumenti disponibili per espandere la sua azione, secondo una strategia di espansione complessiva di controllo coattivo sugli strati più deboli della società; il che sembra rispondere ad una logica di irrefrenabile automatismo, per cui qualsiasi mezzo sia attivabile in questo senso, viene utilizzato a pieno regime".

Detenuti "arruolati" in strati sociali con minori risorse

"Il controllo carcerario continua ad applicarsi verso gli strati più deboli e meno tutelati della popolazione". La denuncia viene dall’Associazione Antigone che nel "Terzo rapporto sulle condizioni di detenzione" mette a confronto tre indicatori (istruzione, condizione lavorativa e luogo di nascita) per dimostrare che la popolazione detenuta viene "arruolata negli strati sociali con minori risorse".

Istruzione. Oltre il 35% dei detenuti non ha maturato la scuola dell’obbligo, l’1,4% è analfabeta dichiarato e il 6,3% non ha alcun titolo. L’obbligo risulta maturato dal 37,9% della popolazione, mentre ad avere un diploma di scuola media superiore (professionali incluse) sono meno dell’8%. Insignificante il numero dei laureati.

Condizione lavorativa. Prima della detenzione solo il 25,73% risulta occupato, mentre il 25,43%, si dichiara disoccupato ed un 2,59% di persone è in cerca di occupazione. La professione prevalente risulta quella di operaio per oltre il 71% di soggetti, "una fascia di lavoro dequalificato o poco qualificato ben superiore al dato relativo alla popolazione nazionale", sottolinea il rapporto.

Luogo di nascita. La popolazione detenuta proveniente dal sud Italia supera il 40%. L’associazione ha elaborato un "indice di carcerizzazione" per regione calcolando il numero di detenuti residenti in una regione su 100 mila abitanti maggiorenni. Al primo posto, con un elevatissimo valore di 178,11, si conferma la Campania, seguita a breve dalla Sicilia (161,45) e ancora dalla Calabria (132,56). Bisogna arrivare al 4° posto per trovare una regione del nord (la Lombardia), ma subito seguita, a breve distanza, dalla Puglia, con soli 4 punti di scarto. Sono dunque le persone nate nelle regioni più povere d’Italia (ad eccezione della Lombardia) ad essere più esposte al rischio di carcerizzazione. Inoltre, segnala il rapporto, la maggior parte della popolazione che viene dalle regioni del sud, è detenuta nelle carceri del nord, "a testimoniare la tuttora frequente pratica di tenere i detenuti lontani rispetto alla loro regione d’origine, contrariamente al dettato dell’ordinamento e del regolamento penitenziario".

Se questi tre fattori diventano indispensabili a fotografare la fragilità di alcune condizioni sociali, secondo Antigone anche l’età dei detenuti è indicativa di precise caratteristiche. Il grosso della popolazione detenuta si concentra nella fascia tra i 25 e i 44 anni, e pure quella tra i 45 e i 60 anni impegna ancora quasi il 19% della popolazione detenuta.

"Ad essere più esposti alla carcerazione è l’area della popolazione matura, o giovane-adulta, quella più presente e attiva sulla scena sociale, più coinvolta in reti di interazione, di partecipazione, di scambio; più esposti perciò ad esigenze ed istanze che ne precarizzano lo status sociale", sottolinea il rapporto. Inoltre l’elevato numero di soggetti sopra i 44 anni, non alla prima esperienza di detenzione, fa pensare ad una " carriera iniziata in giovane età. "Essere ancora in carcere dopo i 44 anni ha tutto il sapore di un definitivo fallimento esistenziale, frutto senza dubbio nel circolo vizioso di autosvalutazione che l’esperienza carceraria innesca", commenta il rapporto.

Immigrati, gli ultimi… fuori e dentro il carcere

Ultimi fuori e dentro il carcere che diventa, soprattutto per loro, un contenitore "assistenziale". Gli immigrati detenuti vivono una condizione di svantaggio sociale e relazionale: sono le prime "vittime" del sovraffollamento penitenziario, sono discriminati nell’accesso alle misure alternative e sfavoriti nell’accesso a terapie di contrasto alla tossicodipendenza e ai colloqui con gli psicologi, probabilmente meno considerati al momento di selezionare il personale per il lavoro interno e protagonisti degli episodi più acuti e frequenti di violenza e autolesionismo. Secondo il "Terzo rapporto sulle condizioni di detenzione" realizzato da Antigone i detenuti stranieri "sembrano destinati a subire un surplus di pena che a volte può estendersi a provvedimenti di espulsione successivi alla stessa". Gli stranieri costituiscono un terzo dei detenuti in Italia e nelle regioni del centro-nord questa percentuale cresce sistematicamente almeno al 40% e spesso supera il 50% per raggiungere punte superiori al 70%. Dal punto di vista geografico infatti il paese è diviso in due. Un esempio l’incidenza degli stranieri sulla popolazione detenuta è in Veneto 3,5 volte più pesante che in Sicilia, dato che va letto tenendo presente che la quota stimata di stranieri sugli abitanti è analoga nelle due regioni. Le prigioni che vedono una presenza elevata di stranieri si caratterizzano sistematicamente per un numero di internati superiore a quello della capienza massima prevista, spesso anche notevolmente più elevato rispetto alla cosiddetta "capienza tollerabile".

Il rapporto segnala una corrispondenza tra il numero di stranieri detenuti e la condizione degli istituti. A Spoleto ad esempio dove i detenuti stranieri sono pochi " la struttura risulta visibilmente in ottime condizioni ed anche molto accogliente e confortevole". Analoga è la situazione di Rossano Calabro (7 stranieri su 150 detenuti) e Palermo (Pagliarelli, 10% di reclusi stranieri), mentre a Rimini, dove il 70% dei detenuti è extracomunitario "i corridoi sono bassi e con finestre poco luminose. Le celle sembrano disporre di luce sufficiente, ma sono strette e ospitano in media sei detenuti, ai piani non vi è ambulatorio, le pareti sono sporche come i pavimenti e... nei passeggi mancano le tettoie". Con il 50% di detenuti non autoctoni, la casa circondariale di Ravenna si presenta "ai limiti della fatiscenza". Tra gli istituti visitati dall’associazione le condizioni più indecorose sembrano riservate ai detenuti di Belluno (stranieri per il 50%) dove alla fatiscenza dei locali si accompagna la circostanza secondo la quale "d’inverno le celle rimangono chiuse tutto il giorno".

Indicativi di un forte disagio gli episodi di violenza e autolesionismo che, secondo quanto rilevato da Antigone, sono più acuti e frequenti tra gli immigrati. In particolare pratiche autolesionistiche sono eseguite da detenuti provenienti dall’area geografica del Maghreb che "si tagliano" esprimendo così "nel sangue, una forma liberatoria" (casa circondariale di Verona) oppure "una forma di protesta" (c.c. di Trento).

Alcuni casi si verificano anche in occasione di scioperi della fame (rilevazioni a Pisa e Livorno) e coinvolgerebbero più spesso detenuti provenienti dai Paesi dell’Est. Episodi acuti legati a incisioni del corpo si segnalano anche a Bolzano, Trieste, Cremona e Pistoia. "Il disagio che segnalano può essere accostato all’assenza di ascolto cui abbiamo appena fatto riferimento, alle condizioni detentive, all’assenza di prospettive future, all’impossibilità di immaginare altre forme rivendicative. – sottolinea il rapporto Lascia pertanto perplessi l’affermazione udita nel corso della visita alla casa circondariale di La Spezia, dove si segnala una situazione strutturale molto problematica ma anche la diminuzione degli episodi di autolesionismo da quando è stato proibito il consumo di alcolici". Tentativi di suicidio, invece, sembrano più frequenti per i reclusi italiani.

Donne detenute: soprattutto tossicodipendenti e straniere

Sono soprattutto tossicodipendenti e migranti le detenute in Italia. Molto ridotta la loro presenza; secondo i dati contenuti nel "Terzo rapporto sulle condizioni di detenzione", curato per questo aspetto per Antigone da Laura Astarita e Marina Graziosi, le detenute rappresentano il 4,6% del totale della popolazione detenuta (dati del 31 dicembre 2003): 2.493 su 54.237 internati, di cui il 40,6% in attesa di giudizio. Sette gli istituti interamente femminili in Italia (Trani, Pozzuoli, Rebibbia, Perugia, Empoli, Genova e Venezia); le carceri maschili, che, invece, ospitano al loro interno sezioni destinate alle detenute, sono 62. Secondo Antigone "poiché costituita prevalentemente da donne che scontano pene brevi ma ripetute, con un alto tasso di recidività, la detenzione femminile è di fatto considerata una mera tematica aggiuntiva, secondaria, di cui è facile sottovalutare e ignorare la specificità. Eppure i rilevanti problemi e il carico di sofferenze che le donne in carcere devono affrontare, sarebbero spesso facilmente risolvibili".

Uno di questi il sovraffollamento, nonostante la grande dispersione della popolazione detenuta femminile in 69 carceri possa far credere che la questione non esista: "Abbiamo riscontrato casi in cui le donne sono anche il doppio del numero della capienza regolamentare prevista, come, per esempio, nel carcere di Forlì. Qui, sarebbe, a detta degli operatori che hanno accompagnato gli osservatori in visita, un problema endemico della struttura nel periodo estivo, dovuto al maggior numero di arresti effettuato nella riviera romagnola per fatti di droga e soprattutto, per reati legati alla prostituzione.

Altra situazione di sovraffollamento è stata riscontrata, al momento della visita, nel carcere di Brescia: 63 donne con una capienza regolamentare prevista di 30. Il carcere di Pozzuoli, inoltre, che ha una capienza regolamentare di 90 persone, ne ospita in media, come la tabella delle presenze ci conferma, il doppio".

Gli ingressi delle donne nel 2003, su un totale nazionale di 81.790, sono stati 7.250: 3.504 italiane e 3.646 straniere (il 43% delle detenute). "Le straniere sembrano progressivamente sostituirsi alle italiane, - sottolinea il rapporto - Questa tendenza si registra a partire dal 1988: allora le straniere in carcere, secondo i dati ministeriali, erano il 16% delle detenute; la loro presenza andrà costantemente incrementandosi fino a raggiungere il livello attuale". Sono soprattutto donne nigeriane e sud-americane e moltissime donne rom, che frequentemente entrano ed escono dagli stessi istituti. La gran parte delle donne è condannata a scontare fino a un massimo di cinque anni, alto il numero di pene brevi e ripetute.

I reati commessi con più frequenza il furto, oggi prevalentemente legato alla condizione di tossicodipendenza, il piccolo spaccio, i reati connessi allo sfruttamento della prostituzione. Omicidi e atti di violenza, pur se numerosi, riguardano di solito l’ambito familiare e non sono "parte della criminalità femminile in senso professionale". Le latinoamericane o africane praticano il piccolo spaccio, lavoro a volte perfino compatibile con il ruolo casalingo, o si prestano come corriere della droga. Queste ultime non hanno quasi mai alle spalle problemi personali di tossicodipendenza, raramente fanno parte dell’ organizzazione criminale ad alti livelli, ma spesso subiscono un tipo di sfruttamento analogo a quello della tratta, dal quale è molto difficile uscire e al quale sembra impossibile sottrarsi. Tra le imputate di furto è numerosa la presenza di giovani madri nomadi, in origine provenienti prevalentemente dai paesi dell’est, giunte in Italia durante l’infanzia o addirittura nate e oramai stabilmente radicate nel nostro paese. Sono loro che portano spesso in carcere i propri bambini, ed è a loro, come alle altre straniere, che è difficile siano concesse le misure alternative alla detenzione.

Circa 50 bambini vivono con le madri detenute

Le donne detenute con figli in carcere sono 52, secondo i dati Dap al 26 febbraio 2004: 4 ad Avellino, 1 a Bologna, 3 a Como, 8 a Firenze Sollicciano, 1 a Lecce, 4 a Milano S. Vittore, 3 a Perugia, 12 a Rebibbia, 1 a Teramo, 8 a Torino Le Vallette, 7 a Venezia. Secondo il "Terzo rapporto sulle condizioni di detenzione" realizzato da Antigone, la media dei bambini che vivono in carcere con le madri è comunque abbastanza costante ed oscilla tra i 50 e i 60 bambini in carcere ogni anno, anche se, data la frequente entrata e uscita di alcune detenute, si possono verificare picchi molto alti di bambini in carcere, così come brevi periodi in cui ce ne sono solo 2-3 per carcere.

"La donna detenuta, che è quasi sempre mamma, vive la detenzione con un livello di angoscia di molto superiore a quello degli uomini, proprio per la responsabilità e la preoccupazione di far crescere un bambino in carcere o di averlo lasciato fuori e per la grande difficoltà nel rapporto madre-figli che si viene a creare. - sottolinea il rapporto -.

Mentre in carcere, infatti, molto spesso questo rapporto tende a diventare un attaccamento quasi morboso, il rapporto con un figlio fuori, come è facile intuire, è molto spesso sfuggevole, discontinuo, doloroso, fatto di mancanza di tempo, di contatto fisico, di parole".

Per i figli di madri detenute l’Ordinamento Penitenziario prevede la creazione di asili nido, ma secondo il rapporto di Antigone nella maggior parte dei casi si tratta di una "sezione nido", in cui sono detenute le donne che hanno figli con i figli stessi. Emblematico il caso di Pozzuoli, il più grande istituto della Campania ed è anche uno dei 7 istituti esclusivamente femminili, dove non c’è la sezione nido e neanche la Convenzione con il Comune: le detenute con bambini vengono trasferite nel carcere di Avellino. Rebibbia ha il maggior numero di detenute con figli, in media ospita 13-15 bambini, ma arriva, in alcuni periodi, ad averne oltre la ventina. In questo istituto non c’è un vero e proprio asilo nido, ma una sezione nido, composta da 2 cameroni e da 2 stanze da 4 posti. Esiste in compenso una Convenzione con il Comune, grazie alla quale ogni mattina i figli delle detenute che acconsentono, vengono portati agli asili nido presenti nel territorio e l’attività di una intensa rete di volontariato. A Vercelli invece, l’asilo nido c’è ma non ci sono madri detenute che, poco dopo l’arrivo, vengono di solito spostate a Torino.

Un esempio di buona prassi il carcere Sollicciano di Firenze dove non c’è un nido, ma una sezione nido, con capienza da 6 a 9 persone, con camere senza blindati, uno spazio giochi, attrezzato dall’Associazione Telefono Azzurro, con un piccolo spazio verde attiguo ed un altro più attrezzato, ma di più difficile accesso. La Convenzione con il Comune c’è, con una disponibilità di 3 posti in asili esterni, ma la difficoltà che tuttora esiste è negli accompagnamenti che, non essendo stati previsti dalla Convenzione, dipendono dal lavoro volontario e per questo motivo i bambini riescono a uscire circa 3 volte la settimana quando sono almeno in due.

Nel carcere di Firenze è stato avviato un progetto con il Consultorio del territorio in cui si trova l’istituto, a tutela della salute delle donne e dei bambini. Grazie a tale iniziativa, ogni bambino ha un medico pediatra che lo segue, scelto dalla mamma tra 5-6 pediatri di riferimento, che si reca in carcere ogni settimana. Inoltre, la direzione sta cercando di rendere più agevole la comunicazione tra la mamma e il medico, di eliminare gli intermediari, nell’ottica di rendere la chiamata un effettivo primo momento di accoglienza della donna, una sorta di valvola di sfogo che possa servire a un primo calo della tensione e a verificare l’urgenza e l’importanza del problema segnalato.

"Attualmente – sottolinea il rapporto - il carcere, con il Comune e con la rete di volontariato che già opera - ottimamente - nell’istituto (e che contribuisce non poco, testimoniano gli operatori, allo sviluppo della coscienza critica degli operatori stessi sulle tematiche relative alla tutela dei bambini e delle loro madri), sta cercando di costruire uno spazio esterno per togliere completamente i bambini piccoli dal carcere, per dare un domicilio affidabile a chi, proprio per mancanza di questo, non può beneficiare delle alternative di legge. Si tratterebbe di un esperimento vero e proprio, per il quale sono stati costituiti tavoli tecnici che da un po’ ci stanno lavorando, ma i cui tempi, per adesso, non sono prevedibili".

Più difficile la situazione per le madri straniere poiché la loro condizione risente della normativa attualmente vigente, la cosiddetta Bossi-Fini e le sottopone a procedimento di espulsione a fine pena, come misura di sicurezza, come alternativa alla pena residua e non superiore ai 2 anni e infine, a fine pena, qualora un detenuto debba essere espulso e tale misura non sia ancora stata adottata. In particolare le ultime due misure, amministrative, vengono disposte automaticamente. Nel caso delle donne la situazione diventa più complessa in quanto sono coinvolti, loro malgrado, anche i loro figli minori. "Questi quasi sempre seguono la madre nell’espulsione e si vedono portati nei loro paesi d’origine che molto spesso neanche conoscono. – sottolinea il rapporto - Si tratta infatti, di solito, di minori che sono perfettamente integrati nella società italiana, frequentano una scuola, parlano l’italiano dalla nascita, sono nati qui. È chiaro che si tratta di una normativa che non prende in considerazione l’interesse del minore che dovrebbe essere quello primario; né prende in considerazione la grave responsabilità che pesa sulle donne madri detenute, che spesso fa sì che, proprio per assicurare ai propri figli la permanenza in Italia e per garantire loro un futuro più sereno, decidono di intraprendere percorsi di reinserimento". Inoltre per "un perverso procedimento che si è instaurato" accade che la persona straniera detenuta che non può avere accesso alle misure alternative se non possiede permesso di soggiorno, che non possiede quasi mai perché o entrata in carcere senza di esso o perché una volta detenuta non può averne il rinnovo.

Detenuti minori: meridionali, migranti e nomadi

"Il sistema giudiziario minorile italiano si caratterizza per essere uno dei meno punitivi d’Europa, se non il meno punitivo in assoluto". Lo rivela Antigone che ha affidato a due esperti come Ettore Cannavera e Vincenzo Scalia l’analisi del fenomeno nel "Terzo rapporto sulle condizioni di detenzione". La devianza e la giustizia minorile, secondo il rapporto, rappresentano un problema di dimensioni relativamente ridotte del sistema giudiziario e penale italiano.

Le misure detentive sono applicate in modo relativamente residuale ed i fatti di criminalità minorile non sono particolarmente allarmanti. Ampia la forbice di situazioni tra minori italiani e stranieri, legata a mancanza di adeguata assistenza legale e di una conoscenza insufficiente o nulla della legge per quest’ultimi, e a una maggiore capacità di integrazione dei primi.

I minori italiani raramente ricevono condanne a pene detentive, potendo contare nella maggior parte dei casi su reti di supporto di tipo familiare e amicale, nonché sul vantaggio di condurre un’esistenza relativamente priva di stenti materiali e strutturata sull’occupazione, la frequenza scolastica, una maggiore organizzazione del tempo libero (sport, attività ricreative). Diversa la situazione dei minori stranieri e nomadi, che vivono una condizione di marginalità sociale.

Alla fine del 2003 gli Istituti Penali per Minori italiani ospitavano circa 500 detenuti, di cui il 57% costituito da minori provenienti da altri stati. Gli stranieri reclusi sono per lo più "non accompagnati", giovani cioè che migrano autonomamente, abbandonando la famiglia ed il paese di origine, alla ricerca di opportunità lavorative e di migliori condizioni di vita. La percentuale sale al 75% negli Istituti minorili del Centro - Nord.

A Catania il più alto numero di minori incarcerati del Sud. "Nell’Italia meridionale, il minore livello di sviluppo economico fa sì che molti minori locali si dedichino ad attività devianti, in particolare quelle relative ai reati contro il patrimonio, come furti e rapine - spiega Antigone - Inoltre, la malavita organizzata continua ad attingere a questo bacino di disoccupazione e marginalità".

Nel 1998, le denunce a carico di minori erano oltre 42.000, quasi il doppio del dato del 1990; di queste ben 18mila sono state sottoposte all’archiviazione, sia perché spesso riguardano minorenni con meno di 14 anni di età, sia perché molti di questi reati sono perseguibili a querela, a testimonianza della lieve entità del fatto. Prevalenti i furti (35%), seguiti dal possesso di stupefacenti (15%), stabili gli omicidi. In aumento le lesioni e le risse. Maggiore diffusione dei reati di estorsioni, possesso illegale d’arma, reati contro la persona si registrano nelle aree metropolitane dell’Italia meridionale, "in conseguenza di un maggiore disagio sociale e di una presenza più forte della criminalità organizzata".

"Marginalità sociale, confusione identitaria, precarietà culturale, si presentano come le cause principali della devianza minorile, alla quale il sistema giudiziario e penale risponde fino ad ora senza particolari difficoltà, pur arrestandosi sulla soglia delle differenze di nazionalità", spiega il rapporto. Lo status di clandestinità per quanto riguarda gli immigrati riduce sensibilmente i margini di integrazione,concorrendo a creare così "un esercito di riserva a buon mercato per le occupazioni in nero o per il reclutamento tra le schiere della manovalanza necessaria allo svolgimento delle attività illegali". Secondo Antigone inoltre laa legge Bossi – Fini, che prevede l’espulsione degli stranieri che al compimento del diciottesimo anno di età non dispongono di titoli legali per soggiornare sul territorio, rischia di aggravare ulteriormente la marginalità. Problemi analoghi riguardano i minori nomadi, in questo caso esiste anche una "discriminazione cronica": "l’incomunicabilità tra italiani e nomadi, produce il rifiuto dei nomadi e delle loro famiglie di collaborare con gli operatori minorile, fino al punto, talvolta, di accettare l’esperienza penale come una tappa normale nella loro esistenza o addirittura come un elemento costitutivo della loro identità."

Italia quarta in Europa per il sovraffollamento

L’indice di sovraffollamento di detenuti rispetto alla capienza regolamentare prevista negli istituti penitenziari italiani è del 30%: tra le regioni più sovraffollate figurano il Veneto (2.440 detenuti al 31 dicembre 2003 contro una capienza di 1.427), il Friuli (716 contro 446), la Lombardia (8.475 contro 5.649), il Piemonte (4.524 contro 3.360), la Valle d’Aosta (242 contro 163), l’Emilia Romagna (3.348 contro 2.365) e la Puglia (3.545 contro 2.395). È quanto si legge nel III Rapporto di Antigone sul pianeta carcere in Italia.

Il fatto che a essere in prevalenza sovraffollati sono le carceri del Nord mentre la maggior parte della popolazione detenuta viene dalla regioni del Sud, si legge nel Rapporto, sta a testimoniare che la tuttora frequente pratica di tenere i detenuti lontani rispetto alla loro regione d’origine, contrariamente al dettato dell’ordinamento e del regolamento penitenziario.

Un altro dato che fotografa la situazione carceraria riguarda l’elevata presenza negli istituti di pena di detenuti in attesa di giudizio: 12.020, cioè il 21,70% della popolazione carceraria al 29 febbraio 2004 e la presenza di cittadini stranieri che rappresentano ormai più di un terzo dei detenuti. Nelle regioni del Centro Nord questa percentuale cresce al 40% e in alcuni casi supera il 50% con picchi addirittura del 70%.

In Italia 55mila detenuti abbandonati a se stessi

Adnkronos, 16 novembre 2004

Sono 55.392 secondo le ultime stime risalenti al febbraio 2004 i detenuti nelle carceri italiane. "Senza troppi giri di parole - denuncia Stefano Anastasia, presidente dell’associazione Antigone - dobbiamo dire che il sistema dell’esecuzione penale e della privazione della libertà in Italia sembra precipitato in un pozzo senza fondo.

Abbandonate a se stesse, le carceri italiane sono tornate, senza retorica e falsi infingimenti, a essere pura sofferenza, pena per la pena, senza neanche più quelle pietose bugie (la finalità rieducativa della pena, la missione trattamentale dell’istituzione, il reinserimento dei detenuti) di cui qualche tempo fa tra noi discutevamo".

Antigone ha presentato oggi a Roma il terzo rapporto sulle condizioni di detenzione, frutto di due anni di approfondimento con 25 osservatori attivamente impegnati nelle visite a 92 istituti carcerari. I condannati definitivi in carcere sono il 61,15%, mentre il 38,85% dei detenuti è in attesa di giudizio.

Carceri italiane sono un "pozzo senza fondo"

Vita, 16 novembre 2004

Il sistema delle carceri italiane è un "pozzo senza fondo", con istituti sovraffollati e in alcuni casi oltre la soglia di tolleranza. La denuncia è contenuta nel 3° rapporto di Antigone

Il sistema delle carceri italiane è un "pozzo senza fondo", con istituti sovraffollati e in alcuni casi oltre la soglia di tolleranza, dove l’ "immobilismo legislativo" ha raggiunto livelli preoccupanti, l’indultino ha prodotto effetti "assolutamente non apprezzabili", i suicidi continuano ad essere in numero preoccupante e gli interventi per la salute dei detenuti sono soltanto un ricordo. La denuncia è contenuta nel terzo rapporto sulle carceri in Italia, realizzato dall’associazione ‘Antigonè, secondo il quale le carceri italiane sono state "abbandonate a se stesse" e sono tornate ad essere "pura sofferenza", dove viene "negata la dignità delle persone".

Dai dati contenuti nel rapporto emerge che i detenuti erano nel dicembre del 2003 54.237, un terzo dei quali stranieri. Le donne erano 2.493, il 4,6% del totale. Il numero complessivo ha raggiunto però i 55.392 nel febbraio 2004, mettendo in luce una tendenza al rialzo. Il problema principale delle carceri italiane è il sovraffollamento: i 55 mila detenuti, infatti, sono ospitati in strutture che in condizioni "ottimali" potrebbero ospitarne 41mila. In Europa, solo Grecia, Ungheria e Bielorussia fanno peggio. E in alcune regioni si superano anche le condizioni di "tollerabilita"‘, che innalzano il numero della capienza a 60mila posti: è il caso della Lombardia, dove ci sono 8.475 detenuti a fronte di 8.448 posti tollerabili (5.649 sono i regolari) e del Veneto dove ci sono 2.440 persone contro i 2.151 posti dell’indice di tollerabilità (1.427 i regolari).

Dei 55mila detenuti, prosegue il rapporto, 34mila scontano pene definitive, 12mila sono in attesa del giudizio di primo grado e 8mila aspettano il secondo e terzo grado. Il 28% dei carcerati, inoltre, è tossicodipendente, mentre 1.500 sono quelli sieropositivi e circa 130 quelli con Aids conclamato. Quanto ai suicidi, nel 2003 sono stati 65 secondo Antigone e 57 per l’amministrazione penitenziaria, mentre nel 2004, nei primi sette mesi se ne erano verificati 39, 9 dei quali nel solo mese di giugno.

chiudere Regina Coeli

Nonostante i miliardi che l’amministrazione ha speso per ristrutturare il vecchio carcere di Regina Coeli, manca lo spazio per corsi professionali e attività rieducative. Una giornata tipo è scandita da alcune ore d’aria in un piccolo cortile e socialità nelle celle. La maggioranza dei detenuti è in attesa di giudizio e per reati minori. Ma nei giorni di ferragosto quando ho incontrato le delegazioni dei detenuti le loro richieste erano rivolte alla risoluzione di problemi giuridici come il protrarsi della custodia cautelare, la non applicazione della legge Gozzini e solo in un secondo momento si è posto il problema del sovraffollamento e delle condizioni igienico - sanitarie. Ma d’altra parte è il cerchio che si chiude perché reati minori, tossicodipendenti e malati, e dove non sussiste la pericolosità sociale, si dovrebbero dare risposte alternative come l’affidamento ai servizi sociali, comunità, controlli di polizia. Invece il carcere resta ancora la sola risposta e Regina Coeli ne è un esempio. Basti pensare che il 30% dei detenuti è tossicodipendente, il 20% sono stranieri e il resto italiani in attesa di giudizio. I definitivi non superano il centinaio.

Roma: Regina Coeli chiude sezione della protesta

Ansa, 9 settembre 2004 È stata chiusa per ristrutturazione la IV sezione del carcere di Regina Coeli dove, fra il 17 ed il 18 agosto, scoppiò una protesta culminata con l’arrivo in via della Lungara del ministro della Giustizia Castelli. La sezione, che al momento della protesta ospitava circa 170 detenuti, sarà oggetto di lavori di ristrutturazione da tempo pianificati. Al termine, fra circa un mese e mezzo, i posti disponibili saranno 80. In contemporanea questa mattina è stato riaperto il primo settore che ospita i detenuti lavoranti, quelli impegnati in attività nel carcere. "La prima sezione - ha detto il direttore di Regina Coeli Mauro Mariani - è la prima in regola con il nuovo regolamento penitenziario, con celle da 2 e 4 posti, con 80 posti totali. Le celle non hanno i vecchi portoncini in legno ma porte regolamentari, docce e angolo cottura. La sezione è, inoltre, l’unica dotata di cucina di reparto. Al termine dei lavori la quarta sezione sarà simile, come standard, alla prima". Negli ultimi 5 anni il carcere è stato oggetto di lavori su varie sezioni e sul centro clinico dotato di sale operatorie. Nel 2001 è stata ristrutturata la IV sezione, quella per i nuovi arrivi e nel 2002 la II, per i tossicodipendenti, con celle da 2 posti non sovraffollabili per 140 persone. All’interno di questa sezione è stata, inoltre, realizzata un’area per l’osservazione dei soggetti a rischio, come il marocchino Nadil Btyahya accusato della morte della tedesca Vera Heinzl. Per consentire i lavori la popolazione del carcere è scesa a 895 detenuti rispetto ai 950 censiti prima della protesta di agosto. Al termine dei lavori rientreranno in carcere 50 detenuti temporaneamente trasferiti in altre strutture.

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Oms: suicidi un morto ogni 40 secondi, più che in guerra Ansa, 13 settembre 2004 Ogni quaranta secondi da qualche parte del mondo qualcuno sta mettendo fine alla propria vita, una macabra cadenza che ogni anno produce un olocausto di un milione di vittime, più di quanto ne facciano il crimine e tutte le guerre messe insieme. Sono i crudi dati resi noti oggi a Ginevra dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che intende strattonare la comunità internazionale perchè si renda conto che il fenomeno dei suicidi, un invisibile fantasma che si perde dimenticato nelle pieghe delle statistiche sociali e sanitarie, è un problema sociale di prima grandezza, un mostro più grande e più brutto delle stesse guerre, perché pur producendo più vittime di queste, appunto, resta sconosciuto. Con l’aggravante, spiegano gli esperti sanitari dell’Onu, che è un fenomeno in gran parte evitabile. Il suicidio rappresenta circa la metà delle morti violente a livello mondiale. Ma si tratta di un problema che si potrebbe prevenire se l’opinione pubblica ed i governi mostrassero la volontà politica di affrontarlo", sottolinea il norvegese Lars Mehlum dell’Associazione internazionale per la prevenzione dei suicidi. Il comunicato dell’Oms dedica spazio alla prevenzione sociale, riconducendola soprattutto alla solidità familiare e al giusto trattamento del malessere esistenziale fin dalla giovane età. Ma l’amorevole attenzione di famiglia e società non sono tutto. Le statistiche brute indicano che il fenomeno può essere in parte ridimensionato intervenendo anche sui mezzi. Mehlum, docente di psicologia all’Università di Oslo, spiega che studi compiuti in molti Paesi dimostrano che le restrizioni all’acceso alle armi da fuoco, specie ai giovani, ha ridotto il numero dei suicidi. "Le pistole sono lo strumento più letale per togliersi la vita e pochissimi sopravvivono", ha detto Mehlum, ricordando come però in alcuni Paesi argomenti di questo genere incontrino forti resistenza, come negli Stati Uniti. "Occorre prendere coscienza che l’accesso ad un mezzo per togliersi la vita costituisce un serio fattore di rischio", e lo dimostra il fatto che il numero di tentativi di suicidio falliti sia da 10 a 20 volte più elevato di quelli riusciti, cioè delle vittime. Il comunicato dell’Oms passa poi in rassegna alcune statistiche. Si apprende, per esempio, che se la fascia d’età più colpita è quella dei sessantenni, dei pensionati, cresce il numero di giovani fra i 15 e i 29 anni che decidono di mettere fine ai loro giorni. E questo, ancora, è in parte colpa della accessibilità alle armi da fuoco. Le donne, dicono gli esperti dell’Oms, tentano di più il suicidio dei maschi, ma falliscono anche più volte. Questo perché "gli uomini in generale fanno ricorso a mezzi più estremi delle donne". Il mezzo a cui più comunemente si ricorre sono i pesticidi, particolarmente fra le donne di famiglie contadine in Cina, seguono le armi da fuoco e i medicinali. A questo riguardo infatti alcune società farmaceutiche hanno scelto di commercializzare i loro analgesici in scatole contenente blister piuttosto che in flaconi il cui contenuto può essere prelevato istantaneamente. Insomma, l’immediata accessibilità all’arma, propria o impropria, è un elemento di incoraggiamento sembrano dire gli esperti. Passando all’analisi geografica dei dati, parziale per l’assenza di statistiche in molte parti del mondo, le aree più colpite - dati relativi - sono gli ex Paesi comunisti, con le repubbliche baltiche (Lituania, Lettonia, Estonia), Russia e Ungheria in testa. Nella cattolica Lituania nel solo anno 2000 si stima che almeno 42 persone ogni 100.000 si siano tolte la vita, 40 in Estonia, 38 in Russia. Seguono Sri Lanka, Kazakhstan, Bielorussia, Slovenia e Finlandia. In termini assoluti in Cina sono morte suicide 195.00 persone nel 2000, pari a 16 ogni 100.000. Segue l’India, il secondo Paese più popoloso della terra, con 87.000, (9,7 ogni 100.000), terza la Russia con 52.000.

Attica quel mattino del 1971... articolo di Bianca Cerri Reporter Associati, 14 settembre 2004 È impossibile cancellare dalla mente l’immagine del cortile del penitenziario di Attica come apparve quel mattino del 1971, destinata a diventare un’icona storica. Sul cemento bagnato dalla pioggia, 43 corpi senza vita, completamente nudi e allineati in mezzo ai detriti e al fango. Erano quelli degli uomini che, quattro giorni prima, si erano impadroniti di un blocco dell’edificio detentivo intenzionati a tenerlo sino al miglioramento delle loro condizioni di vita. Per due volte, il Commissario alle Carceri era mancato agli appuntamenti con i reclusi e lo sciopero della fame era stato represso con la violenza. L’America era allora un paese pieno di guai, frustrato da una guerra senza fine e dalle promesse a vuoto del presidente e i detenuti non contavano nulla. Stanchi di doversi lavare con acqua fredda anche durante le gelate invernali, estenuati dal lezzo dei buglioli a cielo aperto, dal cibo insufficiente ed insapore, dalle celle buie e prive d’aerazione, i prigionieri di Attica decisero di ammutinarsi sequestrando le guardie in attesa dell’arrivo delle autorità cui volevano esporre i loro problemi. Speravano che il governatore venisse di persone a vedere in quali condizioni erano costretti a vivere. Herman Badillo, rappresentante del Congresso aveva inutilmente cercato di convincere Nelson Rockfeller, governatore dello Stato di New York a venire ad Attica, ma Rockfeller, forse l’uomo più cinico e calcolatore mai apparso sulla scena politica degli Stati Uniti, non aveva alcuna intenzione di farlo. Infinitamente ricco, amante del potere, non sopportava vedersi rompere le uova nel paniere da esseri inferiori, soprattutto se si trattava di galeotti. Mentre il Governatore andava a rifugiarsi nella sua lussuosa villa di Pocantico Hills, gli elicotteri della Guardia Nazionale, pieni di poliziotti armati fino ai denti si dirigevano verso Attica. Erano le 9.46 del mattino e l’ordine era quello di riprendere il carcere a tutti i costi e uccidere chiunque si trovasse nei camminamenti sulle mura. Dal cortile dove erano accampati, gli ammutinati videro le ombre nere farsi sempre più vicine. Sembrava che la terra tremasse per il rumore delle pale degli elicotteri che avevano preso a sorvolare il carcere, facendo balenare nell’atmosfera fumosa di quel giorno di pioggia le luci di posizione. Quando ebbero raggiunto la distanza voluta, i poliziotti iniziarono a lanciare gas CN e CS sui reclusi, che non opposero resistenza. Alcuni riuscirono a calarsi con i mitra sino al cortile e presero a sparare con i mitra alla cieca. Il primo caduto fu Kenneth Malloy, colpito in mezzo agli occhi da una Magnum 347 , poi toccò a James Robinson, già raggiunto da un proiettile calibro 270 in pieno petto e finito con un colpo di grazia al collo mentre era già morente. La sparatoria andò avanti per ore. Chi era rimasto soltanto ferito venne finito a calci e pugni, ma anche i cadaveri furono scempiati con accanimento. Dopo aver allineato i 43 corpi senza vita completamente nudi, le guardie costrinsero i vivi a strisciare sui vetri rotti sino a quando non ebbero tutto il corpo ricoperto di sangue. La rappresaglia sembrò destinata a non avere mai fine. Per segnalare che un recluso aveva già ricevuto la lezione che "meritava", i poliziotti, affiancati dal Corpo Forestale arrivato a dare loro man forte, gli incidevano sul corpo una "X". La maschera della riabilitazione era completamente caduta: tutti i prigionieri vennero costretti a giocare alla roulette russa, minacciati di castrazione, ustionati, la vendetta nei confronti degli uomini che avevano osato alzare la testa davanti all’autorità dello Stato fu nuda, cruda e, soprattutto, impunita. Nemmeno un agente venne condannato per quello scempio, un fantasma che continua a pesare nella coscienza dell’America ancora oggi. Quando la persecuzione finì, Rockfeller venne sconfitto alle successive presidenziali e passò al soldo di Henry Kissinger, che aiutò ad organizzare il colpo di stato in Cile esattamente due anni dopo aver ordinato la strage di Attica. Alla generazione di Woodstock vennero le lacrime agli occhi...

======================= La salute mentale era e resta un problema sanitario Itaca, 14 settembre 2004 Sono molteplici i dati che si intersecano nel sistema informativo sullo snodo centrale del senso di un’eventuale riforma alla cosiddetta 180, ma la complessità della loro natura dovrebbe spingere ad una riflessione assai più articolata di quella che può formularsi in un articolo giornalistico. Seppur di quattro pagine. Per riattivare una ricerca sulla cura della malattia mentale, serve ben altro. Se è vero che, come avverte l’Oms, depressione e schizofrenia diverranno presto la seconda causa mondiale di patologie che generano disabilità con costi, diretti o indiretti, a carico della collettività. In due parole: sofferenza e morte. Clorofilla prova allora, come al suo solito, a rilanciare facendosi promotrice di un dibattito politico, oltre che culturale e scientifico, ben più ampio e aperto. Che può partire dall’interno delle sue pagine ma svilupparsi, ovviamente, anche in qualsiasi altra sede. La legge 180 come prodotto storico della sinistra italiana. Questo il dato più rilevante e imprescindibile per una seria riflessione sul tema. In questo senso, non si può fare a meno di considerare quale tipo di cambiamento si connetta, nella tradizione del marxismo italiano, all’elaborazione e alla diffusione del substrato culturale su cui la teoria che ha ispirato il legislatore poggia. L’abolizione dell’istituto manicomiale è, dunque, il risultato dell’evoluzione di parte della cultura progressista in Italia, tra il 1968 e la fine degli anni ‘70. E non si può eludere il tema di come tale abolizione si inserisca, nell’orizzonte della cultura di massa, nella diminuita fascinazione nei confronti della tradizione italiana della "via al socialismo", che pure tanto peso aveva avuto nella definizione del concetto di ‘sinistra’ nella cultura europea (l’edizione Gerratana -1975- degli scritti di Gramsci sarebbe stato uno dei libri più tradotti in assoluto), e nella sempre maggiore fascinazione nei confronti di posizioni e teorizzazioni caratterizzate da uno spiccato carattere di eterodossia: sono quelli gli anni dell’interesse per Foucault, per Artaud, per certo "cristianesimo anonimo", per l’esistenzialismo e l’antipsichiatria. Ecco, allora, che la legge 180 può essere inquadrata come espressione di un concetto di liberazione del comportamento, che andava sostituendo i concetti di liberazione propri della tradizione marxiana. E se fosse stato proprio questo il tentativo della sinistra di rinnovare la propria cultura nell’orizzonte della crisi storica che ormai, sempre più chiaramente, le si prospettava davanti? Se fosse stata proprio la dialettica con l’esistenzialismo e forse, perfino, con il cattolicesimo, ad apparire alla sinistra come possibilità di attualizzare il proprio corredo teorico rispetto alle domande della parte progressiva della società ? L’ipotesi (di questo si tratta) ha un suo fascino, perché, se così fosse, anche la 180, in quanto parte essenziale di tale percorso culturale, proprio perché tangente il problema spinosissimo della libertà individuale, può essere letta come parte significativa di una ri-costituzione dell’identità del movimento di sinistra, e l’attività destrutturante nei confronti del concetto di psico-patologia, si lega al pratico superamento della vecchia istituzione manicomiale, non solo come visione del problema, ma come pretesa visione del mondo. Eppure quegli anni (che potremmo grossolanamente indicare come il ventennio 1960-1980), sono gli stessi anni in cui si sviluppano e prendono piede, in Italia, una teoria ed una prassi medica, legate allo psichiatra Massimo Fagioli, e fondanti la Scuola Romana di Psichiatria e Psicoterapia, che viene definita, esattamente di segno opposto. Anche se entrambe le teorie (Basaglia-Fagioli) finiscono per porsi come superamento della vecchia istituzione manicomiale, all’opposto di quanto avvenne per il basaglismo, la teoria e la prassi fagioliana, sembrano invece fondare, senza rinunciare a un rapporto dialettico proprio con la ricerca rappresentata dalle idee del marxismo, un’attività che rifiuta la semplice liberazione del comportamento, cercando di essere prassi incentrata sul concetto di cura e di trasformazione. E quindi basata sulla considerazione della malattia mentale come fatto patologico oggettivo e reale e non come disagio, devianza o diversità. È in questo senso che le due esperienze si pongono come massima antitesi l’una rispetto all’altra, ed è in questo senso che esse richiamano orizzonti culturali opposti e, in fin dei conti, per la sinistra, opposti concetti di liberazione, ovvero opposte scelte d’identità; è, altresì, in questo senso, che la questione della psichiatria e della riforma psichiatrica, diviene questione storica e politica della sinistra italiana. Tutti sappiamo che all’epoca, parte considerevole della sinistra, scelse il primo termine di questo dipolo, il basaglismo, e chiuse gli orizzonti del suo dibattito, all’interno dei confini di quelle correnti che ad esso si rifacevano. Ma alcuni dati sembrano, allora, molto interessanti: in primo luogo, che un dibattito sulla psichiatria si riapra in questo momento e sia un dibattito critico e partecipato, in secondo luogo, che questo dibattito si inserisca su fatti di cronaca che sempre più necessitano di risposte da parte della psichiatria e sempre meno da parte dell’istituzione carceraria, in fine, il fatto che, in questo dibattito, la sinistra appare sempre più fortemente interessata ad un dialogo con la Scuola Romana, ovvero con ciò che si pone completamente al di fuori dell’impostazione dei suoi tradizionali interlocutori. Ds e Scuola romana di psichiatria e psicoterapia. Stora di un amore conflittuale con la ricostruzione di alcuni sostanziali passaggi del confronto attraverso le dichiarazioni di alcuni importanti esponenti politici. Un interesse a questo dialogo emerse già nel corso del 2000, quando il consigliere Regionale Rosa Alba, allora membro della Commissione Sanità della Regione Lazio e della Direzione Regionale Ds, assistette ad uno degli Incontri di Ricerca Psichiatrica tenuti dalla Scuola Romana presso l’Aula Magna de "La Sapienza". In merito a quell’esperienza dichiara: "Nel corso del mio lavoro in Commissione Sanità, sono venuta a contatto con familiari di malati di mente, in particolare adolescenti, che mettevano in evidenza le carenze della risposta da parte del Servizio Sanitario Nazionale. Di fronte a domande come "Chi può curare mio figlio?", non si può rimanere ancorati a steccati ideologici, ma si ha il dovere di rivedere criticamente il problema della malattia mentale. In questo senso l’incontro con la Scuola Romana di Massimo Fagioli fu un’esperienza importante e stimolante, perché evidenziò come bisognasse tornare a mettere il concetto di cura al centro dell’assistenza psichiatrica. Riflettere su queste idee senza pregiudizi sarebbe una conquista importante per la Sinistra". Se il senso di questo incontro pare essere stato, per la sinistra, la constatazione di una crisi del sistema di assistenza psichiatrica, e quindi la necessità di superare uno steccato per tornare alla concretezza del problema della malattia mentale, bisogna allora chiedersi, quale pensiero si ponga dietro l’incontro sulla psichiatria del 16 Aprile scorso, organizzato dall’onorevole Marida Bolognesi, della Commissione Parlamentare sull’Infanzia, membro della Direzione Nazionale Ds. Andiamo dritti al cuore del problema. A distanza di più di vent’anni cosa può conservare e cosa invece dovrebbe ripensare, la sinistra, della legge 180? La risposta dell’onorevole Bolognesi è altrettanto chiara: "La legge 180 è un fatto storico importante, così come la chiusura della vecchia istituzione manicomiale fa parte del patrimonio della sinistra; tuttavia non si può pensare che una legge, che nessuna legge, per la verità, risponda a tutte le esigenze di qualunque momento storico : non si tratta di ridisegnare quella legge, ma di considerare quali nuove domande la società ponga al legislatore, e di attualizzarla proprio a partire da quei settori ch’essa lascia scoperti." Cioè? "Si potrebbero delineare alcune questioni : da una parte esiste il problema dell’infanzia e dell’adolescenza, su cui non esiste un monitoraggio efficace ed adeguato, dall’altra il problema dell’Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario), che rappresenta un lascito della vecchia istituzione manicomiale e che si connette alla spinosa questione della sanità carceraria, infine non si può pensare che tra il Tso in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura e la possibilità di colloqui nei Centri d’Igiene Mentale non esista nessun filtro intermedio: occorre pensare a strutture sanitarie, e non semplicemente d’accoglienza, che prendano in carico il malato ed avviino una cura per evitare altri ricoveri o, all’opposto, l’abbandono". Emerge come dato interessante il fatto che qui si parli di strutture sanitarie finalizzate alla cura e non, semplicemente, di case-famiglia o di centri d’accoglienza ; ma in che senso deve essere concepita la cura? "Non si possono trascurare i progressi della farmacologia, ma credo che dovrebbe essere incentivata anche la ricerca in ambito psicoterapeutico; bisognerebbe portare la psicoterapia all’interno del servizio pubblico, ed eliminare, compatibilmente con i costi, le differenze che ancora sussistono tra cittadini che hanno la possibilità di accedere, a pagamento, a questo tipo di servizio e quelli che non ce l’hanno. Anche la terapia occupazionale e l’inserimento nel mondo del lavoro sono questioni che vanno valutate con attenzione : questo è un ambito in cui le possibilità offerte al malato fanno la differenza. Ad ogni modo è importante non massificare l’offerta sanitaria, ma ritenere che ogni malato ha bisogno di un "progetto di cura" elaborato dai medici in base alle sue specifiche esigenze". Il riferimento all’Opg, da un lato, e, dall’altro, alla psicoterapia ed al concetto di cura, divengono particolarmente importanti alla luce dei recenti fatti di cronaca e stimolano altre domande, cui l’onorevole risponde: "L’Opg rappresenta, in effetti, un paradosso, sia perché ricorda da vicino il vecchio manicomio, nella sua accezione peggiore, sia perché copre solo una parte esigua delle persone affette da disturbo mentale, presenti nell’universo carcerario... Mi sono, ad esempio, stupita del fatto che gli omicidi seriali non vengano trattati in quelle strutture ma restino in carcere, mentre l’Opg sia in sostanza pieno di persone che si sono ammalate in carcere o che provengono da storie di violenza familiare. Credo sia ora di sanitarizzare e regionalizzare l’Opg, di renderlo un vero ospedale che possa intervenire sul disturbo mentale delle persone che vi vengono ricoverate, avviando un autentico programma di recupero e di ri-inserimento nella società, e non resti semplicemente una struttura contenitiva, che divide con il carcere il trattamento del disturbo mentale del detenuto". Certo, le proposizioni sono abbastanza distanti da quelle che si è abituati a sentire, e l’attenzione per il concetto di cura, stimola a chiedere come sia nato il rapporto con la Scuola Romana, poi verificato nel convegno dell’Aprile scorso. "Quel convegno è stato un’esperienza di grande interesse, ed era importante che vi partecipassero tutti: occorre davvero che la politica sia capace di coordinare un forum sulla psichiatria aperto a tutte le scuole di pensiero, dove si possa discutere il problema da diverse angolazioni. La Scuola Romana rappresenta una realtà consistente nel panorama psichiatrico, ed era giusto coinvolgerla, tanto più che ciò che è emerso è stato molto interessante e l’esperienza mi ha soddisfatta. Credo che sia ora di superare le diffidenze reciproche interne alla psichiatria e di ascoltarsi di più". Se il panorama è questo, si coglie subito, come fatto centrale, che per poter aprire un dialogo bisogna superare il nodo del rifiuto, da parte di certa psichiatria, dell’esistenza della malattia mentale... "Quel dibattito, per fortuna, è superato - dice la Bolognesi - il disturbo mentale è un problema sanitario, complesso, certo, che coinvolge anche il sociale, ma resta un problema sanitario". Questo dunque l’interesse della sinistra in una ricerca sulla malattia mentale che vada al di là dell’esperienza basagliana? Sta emergendo dunque la necessità di rivedere quella scelta identitaria di cui si faceva riferimento nell’ipotesi di lavoro da cui parte l’inchiesta di Clorofilla? Un aiuto, in questo senso, ce lo forniscono le dichiarazioni di Adriano Labbucci, consigliere Provinciale di Roma, membro della Direzione Nazionale Ds e portavoce di "Aprile" nella capitale: "L’incontro con gli psichiatri della Scuola Romana, che lavorano al centro di Via Vaiano è stato molto interessante e positivo: portano avanti un’esperienza innovativa e, purtroppo, poco conosciuta. Bisogna sviluppare delle reti che permettano di diffondere questi interventi e di evitare la cronicizzazione dei pazienti ; molte cose si possono fare in questo senso, e si potrebbe partire dal ristabilire un contatto tra la psichiatria e le realtà sociali e di assistenza medica di base. I rapporti della sinistra nell’ambiente psichiatrico devono aprirsi ad esperienze che non si limitino a quelle cui solitamente ci siamo riferiti: guardare all’innovatività di questa prassi e porsi in ascolto verso gli elementi di originalità teorica, fa parte di un’identità di ricerca che la sinistra dovrebbe avere sempre nei confronti dei fenomeni culturali e scientifici". Identità di ricerca... Cercando di chiudere questi appunti, non possiamo evitare di sollevare una domanda : e se la sinistra ritrovasse, in questa discussione critica, un interesse per la ricerca e la comprensione che renda possibile discutere nel merito dei problemi avendo idee, ma non steccati ideologici ? Speriamo...

carceri (last edited 2008-06-26 10:01:33 by anonymous)