4 ottobre 2004

Comunicado de prensa 1° de octubre 2001 / 1° de octubre 2004: 3 aniversario de Zanon bajo control obrero

Obreros de Zanon

L@s Obreros, cumplimos tres años de la toma de la fabrica y hoy mas que nunca reafirmamos nuestro compromiso de lucha.

Mucha agua a pasado bajo el puente y los gobiernos no nos han dado solución. Nunca nos generamos expectativas de que así sea, CONFIAMOS EN NUESTRAS PROPIAS FUERZAS, así hemos garantizado la fuente de trabajo en estos tres años de gestión obrera.

Comenzamos 260 obreros produciendo 20.000 mts cuadrados de cerámicos, ganando $800, todos por igual y dando una pelea política al gobierno provincial y nacional, en el medio pasaron muchas cosas, buenas y malas. Hoy somos 417 obreros (familias) produciendo más de 300.000 mts cuadrados, tenemos transporte, cobertura medica familiar, servicio de comedor y nuestro sueldo ronda en los $1000, por los años de antigüedad, en la mayoría de los casos. Nos parece que esto confirma, desde la toma hasta hoy, el esfuerzo cotidiano de los trabajadores de Zanon. PERO ESTO NO LO HICIMOS SOLOS, LA COMUNIDAD Y LAS DIFERENTES ORGANIZACIONES QUE NOS APOYAN SON EL SOSTEN DE FABRICA EN PIE, PRODUCIENDO Y LUCHANDO.

Hoy en medio de la política represiva y de la impunidad de los gobiernos que nos entregan a cada minuto, que nos matan de hambre, que nos dejan desprotegidos, sin salud y educación, Nuestro deber es reafirmar el compromiso de seguir produciendo y luchando junto a todos los que pretenden tener un futuro mejor. De eso se trata, de dejar todo en la lucha por lo que entendemos que es nuestro y nos pertenece.

LIBERTAD A TODOS LOS PRESOS POR LUCHAR, DESPROCESAMIENTO A LOS MÁS DE 5000 COMPAÑEROS PROCESADOS POR TRABAJO GENUINO, SALUD Y EDUCACION PARA TODOS. POR LA UNIDAD DE LOS TRABAJADORES.

OBREROS DE ZANON SINDICATO CERAMISTA DEL NEUQUEN.

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I Laboratori di pace e i diritti umani La Comunità europea definisce i «Laboratori di pace» come il principale strumento della Cooperazione tecnica e finanziaria verso la Colombia. Tale cooperazione comprende interventi per 105 milioni di euro. Di questi, 34,8 sono andati al primo Laboratorio di pace nel Magdalena Medio (per una durata di 8 anni) e 33 milioni di euro al secondo Laboratorio, progettato per la durata di cinque anni con l'obiettivo della «costruzione in maniera collettiva delle condizioni per una pace duratura e vera» e in via di realizzazione in 62 municipi di diverse regioni dello stato colombiano. Tra gli obiettivi specifici della cooperazione con la Colombia, «lo stimolo a uno sviluppo economico e sociale e, per quanto possibile, la promozione dello sviluppo sostenibile». Secondo i documenti dell'Unione europea, i territori scelti sono caratterizzati da alcuni problemi comuni, quali l'«alto indice di violenza, esodi, disprezzo dei diritti umani, fragile governabilità da parte dello Stato e uno sviluppo escludente e non sostenibile».

Il primo Laboratorio di pace è stato realizzato a Barrancabermeja e nei centri di una regione che è passata, già da alcuni anni, sotto il controllo delle forze paramilitari. Sul sito internet delle Auc-Bloque Calima (www.aucbc.com) si considera «senza dubbio una speranza il Laboratorio di pace finanziato dall'Unione europea che tenterà di replicare i successi del programma di pace nel Magdalena Medio».

Secondo l'ultima relazione sulla politica di cooperazione allo sviluppo del ministero degli esteri, sono impegnate attualmente in Colombia più di venticinque ong (tra le quali troviamo Cesvi, Cisp, Prodocs, Arcs, Coopi, Mlal, Movimondo, Terre des Hommes Italia), che, con finanziamenti pubblici e privati, si occupano di vari temi, dai diritti umani alla sanità, dall'utilizzo delle risorse del territorio all'animazione e alla formazione professionale, dall'agricoltura all'edilizia.

Nella trappola colombiana Il treno della cooperazione europea con Bogotà finisce su un binario morto GUIDO PICCOLI Quando non spariscono, i cadaveri sono l'unica certezza di molte storie colombiane. Per il resto è quasi sempre tutto oscuro, o almeno discutibile: l'identità di killer e mandanti, i moventi e il contesto dei delitti, la stessa personalità delle vittime. E' stato così anche per il cadavere di Euser Rondón Vargas, ex sindaco della cittadina di El Dorado, ritrovato dentro una Ford Fiesta il 14 settembre scorso a una cinquantina di chilometri al nord di Bogotà, in compagnia di altri due esponenti del movimento «Equipo Colombia», un ex governatore e una deputata regionale. Ognuno con cinquepallottole in corpo. La sera precedente, Rondón aveva abbandonato i suoi dieci uomini di scorta per incontrare degli «amici». Non è una forzatura cominciare da un delitto per parlare dei rischi e delle difficoltà della cooperazione europea, e quindi anche italiana, in Colombia. Rondón era il leader dell'Associazione dei Municipi dell'Alto Ariari (meglio conosciuta con la rassicurante sigla«Ama»), referente dell'agenzia delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp) ma, soprattutto, partner di una «rete italiana per la cooperazione decentrata», costituita da enti locali, università e Ong (dal comune di Modena e la regione Emilia Romagna al consorzio Pluriverso, dalla provincia diTrento al Mlal e l'università di Pavia). Su chi fosse veramente, quale sia stato il suo ruolo e quale sia la situazione della regione in cui operava, c'erano due opinioni opposte. Secondo la prima, era il protagonista di un riuscito processo di pacificazione di una zona strategica del paese (che sarebbe stata in passato flagellata dai ribelli delle Farc ), per il quale ottenne nel 2002 il Premio nazionale della pace, attribuito da varie fondazioni private e dalle maggiori testate giornalistiche colombiane. Un processo che è stato raccontato, anche su vari siti internet di Ong italiane, come la sanguinosa guerra campanilistica dei due principali comuni (El Dorado, conservatore, e El Castillo, comunista), terminata tra abbracci, solenni giuramenti di rispetto reciproco e precisi impegni di collaborazione economica.

Con lo smeraldero Carranza

In base alla seconda opinione, Rondón era invece il volto più noto e presentabile della strategia paramilitare (completata sotto la presidenza Uribe ma iniziata nella metà degli anni Ottantacon lo sterminio, finanziato dallo smeraldero Victor Carranza, di tutti gli amministratori e militanti del movimento dell'Unión Patriotica), che avrebbe sì pacificato l'Alto Ariari, ma facendone, come diceva Tacito, un deserto.

Due verità inconciliabili, quindi. Quella ufficiale, del governo e della stampa colombiana, presa per buona dalla cooperazione italiana, progressista e indubbiamente impegnata, anche al di là della Colombia, nella promozione dei diritti umani. E l'altra verità, sostanzialmente ignorata da quest'ultima, delle organizzazioni umanitarie, da Amnesty International a Justicia y Paz, dei sindacati e dei movimenti di sinistra, che da tempo denunciavano che l'Alto Ariari, come succede per la gran parte delle zone urbane e rurali riconquistate dallo stato alla guerriglia, fosse passata sotto il totale controllo paramilitare. Il delitto di Rondón è destinato a rimanere impunito, visto che tutto fa pensare a un regolamento di conti all'interno dei paramilitari (così come sembra sia stata l'uccisione, avvenuta cinque giorni dopo, di Miguel Arroyave, capo del Bloque Centauros dei paramilitari, che domina la regione). La sua tragica fine, per ora, ha solo chiarito chi fosse la vittima. E' stato proprio il Bloque Centauros, infatti, a rivedicarel'affiliazione di Rondón, rendendo pubblico che fu lui a organizzare i pullman che trasportarono a Bogotà, il 28 luglio scorso, centinaia di sostenitori di Salvatore Mancuso e degli altri due capi delle Auc, invitati da Uribe a parlare nel parlamento nazionale. D'altronde, lo stesso Rondón aveva firmato, insieme ad altri dirigenti di Ama, una lettera aperta pubblicata il 22 agosto scorso a tutta pagina sul quotidiano El Tiempo nella quale, con la pretesa di raccontare «la vera pace nell'Alto Ariari», si sosteneva che fosse stata la popolazione civile a richiedere negli anni scorsi l'intervento dei paramilitari, che venivano ringraziati per il loro contributo alla «pacificazione e sviluppo della zona».

«Per evitare che le migliori intenzioni possano finire per lastricare le vie dell'inferno, bisognerebbe scegliere bene interlocutori e partner, soprattutto nelle zone di conflitto dove è difficile distinguere tra verità e menzogna», sostiene un membro della Commissione Interecclesiale di Justicia yPaz che opera da anni nella regione. Ma occorrerebbe anche imporre condizioni conseguenti ai buoni propositi. Ad esempio, il documento programmatico del maggio 2003, sottoscritto dalla Rete per la cooperazione decentrata italiana insieme col governo colombiano e l'Undp, intitolato «Iniciativa de promoción del desarrollo socio-económico local en Colombia», non citava nelle sue 34 pagine neppure una volta la parola «diritti», mentre ripeteva ben tredici volte la parola «governabilità», come se questa fosse un valore assoluto, indipendente dalla natura e dal programma del governo in carica (nel caso, quello di Alvaro Uribe Veléz).

67,8 milioni di euro

Ma anche quando vengono enunciati con forza, i vincoli programmatici sembrano saltare come birilli in Colombia. E' il caso dei due «Laboratori di pace», promossi e finanziati per 67,8 milioni di euro dall'Unione europea in varie regioni del paese, che vanno dal Magdalena Medio fino al Massiccio colombiano. Se il loro nome fa immaginare una contrapposizione alla scelta bellica, promossa dagli Usa col«Plan Colombia», lo studio dei documenti costitutivi, a firma anche della Banca mondiale e dell'Undp, e ancora di più l'analisi dei loro risultati parziali, dimostra che i «laboratori» sono perfettamente conciliabili con la politica bellicista e neo-liberista di Alvaro Uribe.

Attraversando l'Atlantico, le parole «diritti umani» e «diritti sindacali» scompaiono o si trasformano, nei protocolli d'intesa con Bogotà, nei non meglio identificati «diritti cittadini». E sfumano anche i buoni propositi. Dopo una riunione internazionale, svoltasi a Londra nel luglio 2003, nella quale si decisero gli aiuti al paese sudamericano, il coordinatore della cooperazione europea verso la Colombia, l'italiano Nicola Bertolini, condizionò qualunque ulteriore finanziamento al governo di Bogotà al suo rispetto di ventiquattro raccomandazioni dell'Onu in materia di diritti umani, minacciando, nel caso di una loro inosservanza, «di lasciare affondare ogni aiuto». Erano solo chiacchiere. Sebbene nei mesi successivi il governo Uribe avesse realizzato una politica autoritaria sfacciatamente contraria a quelle richieste, i fondi europei per i cosiddetti «Laboratori di pace» hanno continuato a fluire, come se nulla fosse. Là dove il governo ha voluto, e cioè nelle zone già pacificate, come il Nord Santander, dove (come ha spiegato un attivista umanitario sul Tiempo del 4 luglio 2004) «è stata cancellata qualunque espressione politica indipendente». E per obiettivi che poco hanno a che fare con lo sviluppo sostenibile e la giustizia sociale. In una lettera aperta di fine agosto scorso all'Unione europea, una ventina di associazioni della regione del Cauca hanno definito «i Laboratori di pace un'altra forma di colonizzazione europea, più sofisticata eapparentemente meno violenta di quella realizzata dal governo nordamericano con il Plan Colombia, ma con il comune obiettivo di favorire i progetti delle multinazionali». Insomma, la carota e il bastone.

Con la scusa della biodiversità

Ad essere messi sotto accusa sono le proposte di sviluppo agro-industriale basato sulle monocolture, soprattutto di palma africana, e le mega-infrastrutture, a cominciare da quelle viarie che, guarda caso, sono tutte dirette a «strappare dal loro isolamento» regioni della Colombia e dell'America Latina (prima di tutte, l'Amazzonia) ricche di biodiversità, minerali preziosi, petrolio e acqua. Il «nuovo» proposto con le buone e con le cattive, con le lusinghe e più spesso con le minacce (quasi sempre realizzate con gli omicidi selettivi e di massacri dei paramilitari), ha finora generato tutt'altro che il «prospettato sogno di sviluppo»: ha inaridito in pochi anni la terra, sconvolto l'equilibrio sociale delle zone interessate e trasformato i piccoli contadini prima in braccianti ricattabili e senza diritti e poi in futuri disoccupati. E non ha in nessuna parte creato un nuovo clima di democrazia e tolleranza. Ma il «nuovo» si inserisce anche nel momento particolare del conflitto colombiano in cui Uribe fa di tutto per schierare la società civile accanto al governo e le Forze armate contro le formazioni guerrigliere. Nel presentare, nel marzo scorso, il secondo Laboratorio di pace, il capo-delegazione europeo per la Colombia e l'Ecuador Adrianus Koetsenruijter l'ha paragonato agli interventi «nei processi di ricostruzione e pacificazione visibili anche in altre zone dell'America Centrale». Ma viene subito da domandarsi di che tipo di «pacificazione» o di «ricostruzione» si stia parlando, in Colombia. Quella dell'Alto Ariari, forse? Maggiore trasparenza, chiarezza e dibattito sulle scelte della cooperazione e della solidarietà potrebbe essere un buon antidoto a brutte storie come quella di Euser Rondón.

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Reseña histórica de la Coordinadora Cultural Simón Bolívar del 23 de Enero Trabajado ininterrumpidamente por el fortalecimiento del Poder Local Por: Coordinadora Cultural Simón Bolívar - 23 de Enero

Entre las organizaciones populares que transitan por este nuevo camino que vive Venezuela está la Coordinadora Cultural Simón Bolívar (CCSB), de la Parroquia 23 de Enero de Caracas. Lugar donde el pueblo se levantó en armas junto a los rebeldes bolivarianos y, donde, también, desde hace muchos años un grupo de militantes revolucionarios está trabajando, junto a su comunidad, por reivindicaciones que van desde lo específico hasta los cambios profundos de estructuras. Los que vivimos en el 23 de Enero, tanto como los que sentimos al 23 de Enero como nuestra casa, sabemos que vivir en la parroquia no es nada fácil. Es tarea cotidiana tener que lidiar con un montón de cosas, como que no viene el agua, se amontona la basura, las alcantarillas no sirven, están tapadas o se desbordan, los que viven en los bloques sufren porque no hay luz en las escaleras, no sirven los bajantes de basura, no sirven los ascensores, en fin... cosas que son casi normales o comunes en las zonas populares del oeste caraqueño. Pero allí no termina el rosario de problemas que afrontamos día a día en la parroquia. También nos agobia la inseguridad, producto del auge, cada vez mayor, de la delincuencia. La delincuencia parece una palabra vacía cuando la escuchamos en los noticieros, pero para nosotros no es así. La delincuencia tiene muchos rostros. Son muchachos del barrio que se han metido a malhechores, son los muchachos del bloque que venden la droga en la zona, son los niños que se vuelven hombres a punta de pistola para ganarse "el respeto" de los demás jóvenes. Son a veces nuestros vecinos, nuestros primos o hermanos, o... a veces nuestros hijos.

Esa es parte de la realidad del 23 de Enero. La otra parte está en los miles de hombres y mujeres que, desde muy temprano por la mañana, salen a formar enormes colas en las paradas de autobuses, de por puesto y en las entradas del metro, para tomar un transporte que los traslade a sus lugares de trabajo. Eso es el 23 de Enero, trabajador, honrado. Del cual casi nunca hablan los noticieros, la prensa o de la cual nunca se refiere la gente del otro lado de la ciudad. Es en gran parte de la población del 23 de Enero en la cual estamos muchos que, aparte de ganarnos el pan nuestro de cada día, trabajamos y luchamos, también, para que la parroquia sea un sitio que, ante todo, reivindique la dignidad del ser humano. Y seguramente, se preguntarán muchos: ¿Y cómo se come eso?. La idea es "construir" un espacio donde sus habitantes puedan satisfacer todas sus necesidades, como por derecho les corresponde, mediante la organización de todos, es decir, la organización y la coordinación de esfuerzos de los vecinos de las distintas zonas, asambleas o juntas de vecinos, las juntas de condominio, las organizaciones culturales, deportivas, etc. Es decir, que la comunidad sea protagonista del proceso de transformación necesario hacia una sociedad orientada hacia la justicia social, donde, entre otras cosas, los niños puedan crecer sanos tanto física como psicológicamente, sin que se les presente la opción de engrosar las filas de la delincuencia macabra que está acabando con nuestros muchachos y dejando sin futuro a la nación.

Desde los tristes sucesos del 27 y 28 de Febrero de 1989, Venezuela entró en una nueva etapa histórica. El llamado "sacudón", que nos dejó miles de muertos y mucha rabia y desilusión, también nos dejó las ganas y deseos de organizarnos, de luchar contra las injusticias, de exigir nuestros derechos, y exigir mayor participación en la elaboración y discusión de las políticas públicas que nos conciernen como ciudadanos. Como producto de esos deseos, se conformó en el 23 de Enero lo que se llamó La Asamblea por la Vida. El desarrollo político y social de los siguientes años, caracterizados por muchas protestas de toda índole, el triunfo de un partido de la oposición en la Alcaldía de Caracas (período de Aristóbulo Iztúriz en la Alcaldía de Caracas), el intento de golpe de Estado del 4 de Febrero de 1992 -comandado por el hoy presidente de la República, Hugo Chávez Frías- el segundo intento de golpe de Estado del 27 de Noviembre del mismo año, fueron conformando en la parroquia un equipo de trabajo comunitario conformado por hombres y mujeres de distintos sectores del 23 de Enero, pertenecientes a distintas agrupaciones culturales y deportivas, juntas de condominio, asociaciones de vecinos, etc. Este equipo se conformó inicialmente como la "Brigada de Solidaridad con los Pueblos Antonio José de Sucre", cuya primera jornada de solidaridad fue viajar a Cuba, con la finalidad de realizar trabajo voluntario en el campo, en una Cooperativa agrícola ubicada en San Antonio de los Baños. Fue un mes de intenso trabajo agrícola, y de intercambio cultural con la gente de los caseríos y los pueblos de la región. Con la posibilidad de que los movimientos sociales comunitarios presentaran proyectos para el desarrollo local de las parroquias a la nueva gestión de la Alcaldía de Caracas, más próxima a los intereses del pueblo, este grupo, conformado también como brigada de solidaridad, se planteó la idea de registrar a ese colectivo como Asociación Civil, que además, coincidiendo con la conmemoración de la muerte de nuestro libertador Simón Bolívar, se llamaría "COORDINADORA CULTURAL SIMÓN BOLÍVAR ". Así, el 17 de diciembre del año 1993 nace la COORDINADORA CULTURAL SIMÓN BOLÍVAR de y en la Parroquia 23 de Enero, en el oeste caraqueño.

Desde entonces, la CCSB ha trabajado ininterrumpidamente por el fortalecimiento del PODER LOCAL, como forma de desarrollo de la comunidad basado en la autogestión y cogestión tanto de los recursos materiales como humanos, en la consecución de un desarrollo sostenido basado en el protagonismo histórico del pueblo como sujeto social. Es decir, si bien el Estado debe garantizar el bienestar social de su pueblo, mediante la satisfacción de sus necesidades sociales, las comunidades organizadas deben participar activamente en la elaboración de las políticas públicas que les conciernen, tanto para intervenir en la asignación de recursos para las parroquias, como en la justa distribución de éstos para el desarrollo local, y por ende, regional y nacional. Así mismo, deben ser el principal impulso para que realmente vayamos a ese proceso de transformación social. El trabajo social y comunitario que desarrolla la CCSB se enfoca principalmente en las áreas de: organización vecinal para la participación real de la comunidad en la solución de los problemas que afronta la parroquia y, en la discusión de las políticas públicas, así como para el fortalecimiento de un verdadero liderazgo colectivo; participación política crítica y consciente, con la puesta en práctica de ciclos de foros y talleres, así como actos políticos donde se invita a participar a los representantes de distintas posturas y posiciones ideológicas y políticas con el fin de que la gente pueda hacerse una idea propia de su participación política. En tal sentido, la CCSB realizó, en varias oportunidades, foros que contaron con la participación del ahora presidente de la República, Hugo Chávez, así como facilitó los espacios de su sede y la organización del evento para la apertura del "Frente Patriótico" del 23 de Enero, que contó con la participación de distintas agrupaciones políticas de la parroquia; el rescate de las tradiciones y expresiones artístico-culturales, como "La Cruz de Mayo", "Sangueo de San Juan", Paradura del niño, etc. que nos identifica más con nuestra cultura y nuestra idiosincrasia; el fomento de actividades deportivas, considerando al deporte como parte integral del hombre que además brinda a los jóvenes la oportunidad de acceder a otras alternativas diferentes a las drogas o la delincuencia; el rescate de los espacios, que no es más que volvemos a apropiar de los espacios y zonas destinadas originalmente al esparcimiento social, al compartir de los vecinos, a la recreaciòn de los niños, pero que con el paso de los años y el aumento de la delincuencia se han convertido en sitios para la venta y distribución de drogas, o donde se ubican las bandas juveniles que con frecuencia intercambian las balas con otras bandas, etc., con lo cual la gente tiene que refugiarse a tempranas horas en sus casas, o teme salir a estos espacios, así como temen dejar que sus hijos transiten por esos espacios. Con el fomento de actividades de todo tipo que involucre a la comunidad, como teatro de calle, actos musicales, jornadas de limpieza, etc. la gente se vuelve a apropiar de estos espacios, así como se van desplazando y emplazando a que se marchen a estos "delincuentes" que no son más que el producto de esta sociedad desigual e injusta. Todas las áreas de trabajo mencionadas anteriormente, se sustentan en tres pilares fundamentales: el estudio colectivo de las necesidades concretas de la comunidad parroquial del 23 de Enero, la planificación de estrategias a corto, mediano y largo plazo, y la participación vecinal como sujeto social de la acción de transformar, utilizando diversas metodologías de participación social e instrumentos metodológicos como los foros, talleres, actos culturales, actos musicales, jornadas de murales, de limpieza, de solidaridad con los pueblos, etc. Consciente de su compromiso social, con el pueblo y para el pueblo, y su responsabilidad con la Patria y las generaciones futuras, la CCSB sigue y seguirá desarrollando sin descanso este arduo trabajo, siempre contando con muchos hombres y mujeres que, sin esperar nada a cambio, ponen de sí lo mejor cada día, para ver sus sueños realizados, la verdadera transformación social, que no es otra cosa que la propia transformación del hombre, hacia una humanidad más solidaria, más tolerante hacia la diversidad humana y en armonía con el medio ambiente que nos cobija y nos da la vida. Este cambio ha comenzado ya, pero nos queda mucho camino por delante, y es hora de que todos nos pongamos a trabajar, sin egoísmos, sin diferencias que nos separen, en pro del bienestar común, de esa transformación social.

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27 settembre 2004

23/9/2004

Brasil El gobierno Lula entre dos aguas Si el crecimiento económico fuera la forma de medir los aciertos de un gobierno, el de Luiz Inacio Lula da Silva debería ser valorado como exitoso. En efecto, en 2004 el producto bruto interno crecerá por encima del 4%. En contraste, el 7 de setiembre, día de la patria en Brasil, casi dos millones de personas salieron a las calles convocadas por el Grito de los Excluidos, para rechazar la actual política económica, exigir un plebiscito sobre la deuda externa y la aceleración de la reforma agraria. Por Raúl Zibechi.

Si el crecimiento económico fuera la forma de medir los aciertos de un gobierno, el de Luiz Inacio Lula da Silva debería ser valorado como exitoso. En efecto, en 2004 el producto bruto interno crecerá por encima del 4%, contrastando vivamente con el estancamiento del año anterior, primero de la gestión petista, cuando la economía decreció un 0,2%. Los datos del primer semestre de este año confirman la tendencia que comenzó hacia fines del año pasado: según los portavoces oficiales, se trata de un verdadero despegue ya que estarían dadas las condiciones para un crecimiento sostenido durante un largo período. En el gobierno se respira un clima de euforia, ya que el avance de la economía vendría a confirmar la certeza del polémico rumbo tomado por el Partido de los Trabajadores (PT) en el gobierno.

En contraste, el 7 de setiembre, día de la patria en Brasil, casi dos millones de personas salieron a las calles convocadas por el Grito de los Excluidos, para rechazar la actual política económica, exigir un plebiscito sobre la deuda externa y la aceleración de la reforma agraria. La décima edición del Grito, movilización anual en la que participan desde hace diez años casi todos los movimientos del país, desde la iglesia católica hasta los sin tierra (MST), se realizó de forma simultánea en 1.800 localidades. En la concentración central, en Aparecida do Campo, en el estado de San Pablo, participaron unas 90 mil personas, según Brasil de Fato, semanario vinculado a los sin tierra.

Economía y elecciones

Durante más de un año, el gobierno de Lula -y muy en particular su ministro de Economía, Antonio Palocci- aseguró que los sacrificios del primer año y la continuidad con el modelo neoliberal del ex presidente Fernando Henrique Cardoso, eran el precio a pagar para que la economía despegara de forma definitiva. El gobierno optó por una política asentada en un fuerte superávit fiscal primario (superior incluso al comprometido con el FMI), un importante recorte de los gastos gubernamentales y una muy elevada tasa de interés para frenar cualquier estampida de la inflación. Para un país cuya deuda asciende al 55% del producto bruto, se trataba según los voceros oficiales de "poner la casa en orden" para reducir la vulnerabilidad externa del país y tomar las riendas de la economía y del Estado.

Las principales críticas vinieron tanto de la izquierda y de los movimientos como de los grandes industriales, quienes sostienen que el elevado superávit fuscal y las altas tasas de interés tienen efectos recesivos y suponen no sólo una merma de la actividad económica interna sino que fomentan el desempleo. Desde el oficialismo, se ha respondido que los efectos nocivos del superávit fiscal se compensan con el gran aumento que experimentan las exportaciones, y que la tasa de interés iría descendiendo a medida que bajara la inflación, como ha sucedido a lo largo de 2003.

Sin embargo, el notable crecimiento de las exportaciones -sólo las del agrobusiness crecieron un 44% en lo que va de año- no beneficia a la inmensa mayoría de los brasileños sino a un pequeño sector hiperconcentrado y supertecnificado, que genera muy pocos puestos de trabajo pero sí enormes ganancias para las multinacionales que regentean el negocio. Pero es la evolución de la industria la que pone en negro sobre blanco qué tipo de crecimiento está sucediendo en Brasil. En los seis primeros meses de este año, la industria de bienes durables creció un 28,2% por encima del nivel de 2002, mientras la de bienes no durables bajó un 0,8%. Las industrias que abastecen al mercado interno, y en particular a los sectores populares, fueron las que tuvieron el peor desempeño: bebidas, vestimenta y calzados cayeron por encima del 7% en los seis primeros meses del año.

Carlos de Assis, editor de Desemprego Zero, señala que crecen aquellos rubros "consumidos principalmente por los ricos y por las exportaciones", por lo que "la recuperación industrial, si existe, atiende sobre todo a los ricos" (1). Entre los asalariados, el relativo avance de la economía no consigue los resultados esperados: en el primer semestre de este año se crearon un millón de empleos en el sector formal, pero el 54% perciben remuneraciones de apenas un salario mínimo y medio (130 dólares).

Para empeorar este panorama, el Banco Central -a cuyo frente el gobierno de Lula colocó a un destacado representante de las altas finanzas- elevó a principios de setiembre las tasas de interés (del 16 al 16,25%) para enviar una "señal" de que no tolerará un aumento de la inflación. Se trata de una pésima noticia para quienes aspiraban a que el crecimiento económico podría direccionarse hacia la reactivación del mercado interno. Al parecer, el crecimiento seguirá escorado hacia las clases altas y hacia el mercado externo, y las tasas de interés seguirán subiendo, lo que impedirá bajar el desempleo y mejorar el nivel de vida de los más pobres.

No obstante, aún esta frágil reanimación económica coloca al gobierno de Lula en buenas condiciones para enfrentar las próximas elecciones municipales y estaduales (cuya primera vuelta se realiza el 3 de octubre), en las que el PT y sus aliados esperan aumentar la cantidad de municipios bajo su control. Los nubarrones que aparecieron a principios de este año -desencanto de la población por los malos resultados económicos sumado a denuncias de corrupción que afectaron a la mano derecha de Lula, José Dirceu- parecen irse disipando. Pero las municipales pueden registrar algunos reveses significativos para el oficialismo, sobre todo en la ciudad de San Pablo, la más importante del país, el municipio estrella cuyo resultado tiene trascendencia nacional. Allí, la actual alcaldesa, Marta Suplicy del PT, deberá competir en segunda vuelta con José Serra, ex candidato a la presidencia por el PSDB (el partido social demócrata del ex presidente Cardoso) derrotado por Lula hace dos años, pero que parece mejor posicionado para arrebatarle al PT la ciudad más importante del país.

En otras ciudades emblemáticas, como Porto Alegre, el candidato petista (Raúl Pont, integrante de la IV Internacional) lleva una cómoda ventaja aunque deberá acudir a una segunda vuelta. En todo caso, las elecciones del 3 de octubre abrirán un nuevo tiempo político: "El tema de la reelección comenzará a colocarse abiertamente para el gobierno y formará parte necesariamente de la pauta de la derecha", apunta el filósofo petista Emir Sader. (2)

¿Retorno del movimiento social?

A juzgar por la masividad de la movilización convocada por el Grito de los Excluidos, es posible que el movimiento social esté comenzando un proceso de reactivación. En 1995, la primera vez que se conmemoró, se realizaron manifestaciones en 170 ciudades; diez años después, la cifra se multiplicó por diez. Para el MST, principal animador de la movilización social, la única forma de destrabar la situación actual ("el gobierno es medio popular y medio burgués" aseguró un destacado dirigente), es promoviendo un "reascenso del movimiento de masas, capaz de alterar fundamentalmente la correlación de fuerzas en la sociedad y garantizar que el gobierno haga cambios efectivos en la política económica actual" (3). Este convencimiento llevó a los sin tierra a poner en pie, junto a movimientos rurales y urbanos, la Coordinadora de Movimientos Sociales (CMS) para articular luchas comunes. La integran, además de los sin tierra, la Central Unica de Trabajadores (CUT), la Unión Nacional de Estudiantes, las iglesias, Vía Campesina, el Grito de los Excluidos y grupos marginados urbanos conocidos como los "sin techo". Los movimientos comienzan a alzar la voz.

No es para menos: Lula se comprometió a asentar 400 mil familias en cuatro años, pero en lo que va de 2004 según el MST el gobierno asentó sólo 28.700, y está muy lejos siquiera de acercarse a la mitad de la meta fijada. En 2003 se pagaron 50.000 millones de dólares por intereses de la deuda, cinco veces más que el presupuesto de salud, ocho veces más que el de educación y 140 veces más que el gasto en reforma agraria. El Plan Hambre Zero, el principal programa contra el hambre y la exclusión social, llega en estos momentos a poco más de tres millones de brasileños, de un total de 54 millones que se propone incluir. Mientras los planes sociales marchan a paso de tortuga, el sector financiero sigue amasando fortunas: en los seis primeros meses de este año, las ganancias del sistema financiero crecieron un 14,7% respecto a 2003, pese al descenso de las tasas de interés (4). En tanto, el desempleo y el subempleo alcanzan al 25% de la población activa.

Parte del viraje que está procesando el movimiento social, queda plasmado en el lema del Grito de este año: "Brasil: cambio de verdad, el pueblo lo hará". Ari Alberti, miembro de la Coordinación Nacional del Grito, explicó este viraje que consiste en no esperar más cambios desde arriba. "El gobierno ya demostró en estos casi dos años que, por más que tenga buena voluntad, no va a conseguir cambiar esta realidad. La presión de arriba es muy fuerte, sea interna o externa. Si el pueblo organizado no hace presión desde abajo hacia arriba para que las cosas cambien, no va a suceder nada. La esperanza se diluye y se torna frustración. Es preciso organizar la esperanza, politizar la esperanza, para que se torne movimiento. Esa es la convocatoria del Grito" (5).

El día después

Muchos dirigentes y militantes sociales esperan que luego de las elecciones, "el gobierno esté menos presionado y más dispuesto a discutir las necesidades de los movimientos", como sostiene Brasil de Fato del 9 de setiembre. Es posible. Pero lo que realmente está cambiando es la percepción de amplios sectores de la necesidad de hacer algo, y de hacerlo ya. Para Stédile, "el pueblo está más consciente y confiado" en sus propias fuerzas. Algo que corrobora la CMS, al afirmar que "el pueblo está percibiendo que es el protagonista de los cambios". Ya no son sólo intelectuales aislados o sectores de la izquierda radical los que enfrentan al gobierno, sino movimientos sólidos y con gran capacidad de acción, como los sin tierra, que deslindan campos de forma cada vez más clara. Y la propia iglesia católica, que por boca de varios obispos viene reclamando un radical cambio de rumbo.

En las alturas, sin embargo, se registra una sorprendente paradoja: el gobierno Lula -que ostenta niveles de aprobación elevados y tiene una base de apoyo política y social tan amplia como heterogénea- puede ser menos sólido de lo que aparenta. Ante un nuevo ascenso del movimiento social, tiene escaso margen para no ceder y cambiar la orientación política. Una fragilidad reconocida, incluso, por el actual secretario general del PT, Silvio Pereira. En una entrevista publicada por el periódico Valor Económico, Pereira sostuvo que el PT no está en condiciones de afrontar siquiera una derrota electoral en la ciudad de San Pablo. "Una derrota en San Pablo es una derrota electoral del PT. No hay victoria que compense eso, por más que el partido sea victorioso en el resto del país. Eso va a llevar a una profunda discusión, en el PT y dentro del gobierno, que podrá resultar en cambios profundos en el gobierno o la posibilidad de mayores rupturas en el PT. El cuadro de derrota es serio y puede poner en juego (la elección presidencial de) 2006, todo el proyecto político e histórico del PT. No se trata apenas de una derrota electoral. Perder en San Pablo sería derrotar toda una historia" (6).

La visión del secretario general suena demasiado fuerte. Aún aceptando que puede estar acicateando al electorado, revela la fragilidad del gobierno Lula. Sin embargo, sería un error pretender que el gobierno es frágil por otra cosa que no sean las opciones políticas que viene realizando. El propio Pereira, queriendo destacar al de Lula como un gobierno de "unidad nacional", puso el dedo en su mayor debilidad: "El sector financiero está dentro. Los sectores industrial y exportador también. Los partidos de izquierda y de derecha están dentro". El PT llevó tan lejos el juego de alianzas políticas y sociales que, inevitablemente, está en la cuerda floja. Cualquier movimiento en falso, puede provocar una ruptura sin retorno.

Esta situación de delicado equilibrio, que hasta ahora era percibida sólo por las elites, comienza a ser visualizada también por los militantes sociales. Durante el Grito de los Excluidos, el coordinador de la Central de los Movimientos Populares mostró que la gente está perdiendo el temor a movilizarse contra "su" gobierno: "La idea es hacer como que el pueblo está más 'nervioso' que el mercado financiero. Tal vez, así el gobierno se preocupe antes de las prioridades de los brasileños que de calmar al FMI y al Banco Mundial".

20 settembre 2004

Uribe habilita el Estado narcoterrorista-paramilitar; Bush-Moscoso los Escuadrones de Muerte de Miami ¿Qué pasará si Bush gana las elecciones?

Heinz Dieterich Rebelión En el ajedrez hemisférico para destruir a la Revolución Bolivariana, la Revolución Cubana y los movimientos progresistas, Bush avanza la construcción del Estado terrorista colombiano, rehabilita la estructura militar-paramilitar de terrorismo de Estado hemisférico y planea reocupar militarmente a Panamá.

La reelección de Bush, al igual que la de Uribe, son una posibilidadad real. Si Bush gana en noviembre, la situación de Venezuela, Cuba y de los movimientos populares se complicará peligrosamente porque vendrá con un supuesto mandato electoral para su política neofascista. Pero, aunque gane Kerry, el enfrentamiento es inevitable, porque los Demócratas ---cual parte de la oligarquía dominante estadounidense--- tampoco jamás renunciarán a la Doctrina Monroe, si no es por la fuerza.

Ante ese escenario, se requiere una política latinoamericana de contención de Washington, que solo puede existir en una integración acelerada de los Estados progresistas y movimientos populares en un gran Bloque de Poder Histórico, capaz de defender la perspectiva estratégica de liberación que hoy tenemos, en lo económico, político, cultural y militar.

Si Bush logra la reelección en noviembre, no tendrán peso las declaraciones y papeles que los intelectuales redacten en sus Foros en Defensa de la Humanidad o Foros Sociales Mundiales. Parecerán reuniones esotéricas ---que de hecho lo son--- o videogames de poder que no van a parar la mano de Uribe ni de Bush.

Para incidir sobre la correlación de fuerza real hemisférica en este choque entre la Doctrina Monroe y la Patria Grande es necesario dejar a los videogames intelectuales y sus “combat centers” virtuales de cinco estrellas, para construir el eje de poder Estados-Pueblos bolivarianos, única fuerza capaz de decidir la batalla a favor de la Unión del Sur-Bloque Regional de Poder.

Este ensayo es el primero en una serie de tres sobre esta problemática.

1. La habilitación de los paramilitares-narcoterristas como sujeto legítimo de la política colombiana

Roberto Duque Gaviria, alías Ernesto Báez de la Serna (sic), cabeza política y vocero de los Escuadrones de Muerte del Estado colombiano (Autodefensas Unidas de Colombia, AUC) y Comandante de su más poderoso destacamento, el Bloque Central Bolívar, no pudo contener su repentina pasión por la democracia.

Había llegado el momento estelar de su carrera política: de simple abogado del liberalismo colombiano y cabeza política de los descuartizadores con motosierra y traficantes de estupefacientes, las AUC, se había convertido en estrella política invitada por sectores del Congreso, el Presidente del Senado y el Presidente de la República, Alvaro Uribe, para hablar ante la máxima tribuna de la nación.

“Estar aquí, en la catedral primada de la democracia que es el Congreso de Colombia, donde hubiésemos querido venir antes de tomar las armas, compromete el reconocimiento de la Organización de Autodefensas Campesinas, especialmente con la Cámara de Representantes, que refrendó con su voto mayoritario el gesto democrático de permitírsenos dirigir un mensaje a la nación y al mundo, no desde los estremecedores escenarios de la guerra fratricida, sino desde la tribuna solemne donde reside la majestad de la república.”

Alrededor de 45 minutos duró la arenga del miembro del Estado Mayor y de la Dirección Política de las AUC ---vestido, como los otros dos líderes terroristas, de fina ropa italiana valorada en alrededor de 2000 dólares y con elegantes anteojos oscuros--- que terminó, haciendo gala de su formación profesional de abogacía, retórica clásica y desafío político.

“Termino esta intervención haciendo nuestro, el informe nacional de desarrollo humano, que llamó al conflicto armado en Colombia como una guerra de perdedores: “ la guerra ha sido un fracaso. Fracaso para las Farc y para el Eln que, tras cuatro décadas de lucha armada, están cada vez más lejos de llegar al poder. Fracaso para los paramilitares que en veinte años no han logrado acabar con la guerrilla. Fracaso para el Estado Colombiano, que no ha sido capaz de derrotar a los insurgentes, ni de contener el paramilitarismo, ni de remover las causas del conflicto armado”.

“Después de cuarenta años de terrible devastación, en la que los hijos inocentes de este suelo, escucharon el ruido estridente y fúnebre y trágico del coro de las Coéforas de Esquilo: “Es la ley que a sangre derramada otra sangre se vierta ”, este canto fatal no volverá por nuestra cuenta, a escucharse en los cielos de esta amada patria de Colombia.”

Alrededor de sesenta representantes del Congreso, de un total de 268, que escucharon emocionados la predica del vocero de las AUC, transmitida en vivo por Señal Colombia, se levantaron de sus curules y le dieron una ovación de pie a “Ernesto Baez de la Serna” (sic), terrorista liberal de Estado con complejo de guerrillero heróico.

Antes, los congresistas habían escuchado durante 46 minutos al Jefe del Estado Mayor de las AUC, “Comandante Salvatore Mancuso”, en ese acto de “instalación oficial” del proceso de negociación entre el Gobierno Nacional y las Autodefensas Unidas de Colombia.

“Yo soy un empresario y padre de familia, al igual que muchos de mis compañeros que me acompañan hoy aquí, al que la guerra arrancó del seno de mi hogar y me incrustó en las montañas de Colombia”, empezó Mancuso, para, acto seguido, acusar al “colapso progresivo” del Estado colombiano el problema de la guerra.

2. El proyecto político del paramilitarismo estatal colombiano: destrucción-modernización capitalista

“El colapso progresivo del Estado expresado en la crisis de Autoridad, en el desmoronamiento de la Justicia, en la desmonopolización de la Fuerza, en la depravación de las costumbres políticas y en la deslegitimación creciente de la democracia. Así, corrió paralelo un proceso fuerte de militarización y sustitución del Estado por parte de los actores armados irregulares, que invadieron los espacios de la institucionalidad pública, ocuparon los escenarios de acción de los actores sociales e intervinieron las estructuras de poder político local y regional.

“En el caso particular del movimiento de Autodefensas Campesinas, esta circunstancia de negación del Estado sustituido por un Estado de facto, tuvo caracteres de legalidad y legitimidad, por cuanto que, aún para finales del decenio de los años ochenta, permanecía vigente el amparo jurídico de la ley 48 de 1968 que le otorgaba sustento legal a la Organización en armas. Desde este punto de vista es preciso conocer que nuestro movimiento antisubversivo, en su lejana génesis, hunde sus raíces en el terreno que previamente cedió y abonó el propio Estado. Años después, inmersos en el mundo de la ilegalidad, evolucionaríamos hacia el modelo de Autodefensa Campesina autónoma, con conciencia social y nacionalista.”

La estructura de argumentación de Mancuso en esta parte de su discurso es muy semejante a varios aspectos centrales del discurso nazi. Definir a las AUC como un modelo (sic) “con conciencia social y nacionalista” revela: a) que no se trata ya de un movimiento bandolero improvisado, sino de un clásico proyecto de modernización-destrucción capitalista y, b) que, al igual, que en el caso del nacionalsocialismo alemán, se trata de un proyecto histórico en beneficio del gran capital nacional (e internacional), disfrazado con una ideología pequeño-burguesa.

La legitimación de este proyecto también es semejante: la debilidad e irresponsabilidad del Estado y de las elites políticas han permitido el desarrollo de la subversión de izquierda (“comunismo”), amenaza que tiene que ser conjurada en autodefensa por la sociedad (las AUC) y con los métodos terroristas que la subversión emplea.

“Corrían los tiempos de la superioridad táctica y estratégica de las guerrillas comunistas, que anunciaban anticipadamente sus aplastantes y rotundas victorias militares en el Sur del país, y el salto definitivo de un esquema de guerra de guerrillas, a una guerra de movimientos y de posiciones, en las que llevó la peor parte el aparato militar del Estado. Prácticamente en esos momentos cruciales la iniciativa táctica contrainsurgente volvía a correr de cuenta del resurgimiento de las Autodefensas Campesinas.

“La violación de los compromisos por parte del Estado, que ignoró los mandatos del contrato social en cuanto a la tutela de la vida, los bienes, la libertad y la justicia social, precipitó el resurgimiento espontáneo del movimiento armado de las Autodefensas Campesinas y, posteriormente, la agrupación en un solo proyecto nacional de todas las organizaciones regionales, bajo la divisa unificada de Autodefensas Unidas de Colombia.

“Hoy, el círculo vicioso de la violencia recurrente debe y tiene que desaparecer de la faz de Colombia. Ha sido difícil, pero hemos agotado enormes esfuerzos, para presentar ante el país y el mundo a la Organización de Autodefensas Campesinas fuertemente cohesionadas alrededor del ideal de paz que a todos nos convoca en esta fecha. Aquí, como Jefe del Estado Mayor, estoy representando al noventa y cinco por ciento de las Autodefensas Unidas de Colombia. Esperamos que muy pronto la totalidad de las Autodefensas se incorporen a este proceso de negociación.

“El fortalecimiento del Estado hoy, la recuperación de la confianza en las Instituciones, los ascendentes índices de seguridad y satisfacción ciudadana y, en fin, la restauración de los vasos comunicantes entre la Nación y el Estado, nos llevarían en un futuro próximo, dentro de un proceso de avanzada madurez política, a reconocernos innecesarios como Organización armada.”

3. El paramilitarismo negocia la estatización

Acto seguido, Mancuso explica el proyecto de Estado neoliberal-terrorista que está realizando Alvaro Úribe y el papel de las organizaciones paramilitares en el. Al igual que en el caso de los nazis, ese proyecto no fue elaborado por los torturadores y descuartizadores de abajo, sino por sectores de la clase política y jurídica colombiana, en alianza estratégica con Washington.

Es evidente, por ejemplo, en los discursos de Duque y Mancuso, que la base política-jurídica de la argumentación repite los argumentos de la Sociedad Colombiana de Defensa de la Tradición, Familia y Propiedad (TFP), cuyos planteamientos son compartidos y adelantados por el expresidente de la Corte Suprema de Justicia, Humberto Barrera Domínguez, el exprocurador general de Colombia, Julio Romero Soto y el exjuez superior, Humberto Sarmiento Boada, entre otros.

Dentro de ese proyecto de destrucción-modernización del gran capital, conducido por líderes terroristas, la situación entre los capos paramilitares y Alvaro Uribe es comparable, en cierto sentido, a la que existía entre Adolf Hitler y Ernst Roehm. Roehm organizaba y comandaba a las fuerzas paramilitares del partido nazi (NSDAP), las llamadas Sturmabteilung (SA) que hicieron el trabajo sucio del partido y fueron importantes para terrorizar a la población.

En 1934, con Hitler ya en el poder, y la necesidad de estatizar al partido contrarrevolucionario y sus aparatos terroristas, Roehm, que insistía ingenuamente en las demandas “socialistas” del programa nazi, se volvió un obstáculo para el gran capital alemán; hecho por el cual Hitler lo mandó liquidar rápidamente.

En Colombia, el narcoterrorista Carlos Castañeda ya corrió el mismo destino. En cuanto a Mancuso, Duque e Isaza, los tres están negociando su futuro papel en la dictadura neoliberal de Uribe, tratando de emular el salto cualitativo que Uribe dio desde sus negocios narcotraficantes y del terrorismo de Estado hacia la categoría de político respetable en el Palacio de Nariño.

Su poder de negociación está en varios factores: las enormes fortunas que arroja el narcotráfico; sus escuadrones de muerte paramilitares; su apoyo en sectores importantes del Estado, del Congreso y de la elite económica del país; las tierras que se han apropiado mediante una política de “limpieza económica-política”; la población que controlan mediante el terror; el apoyo de la derecha mundial, particularmente en Miami y Washington y su oferta de compartir el poder en el proyecto imperial-oligárquico, en lugar de querer monopolizarlo.

4. El papel de los paramilitares en el futuro Estado terrorista de Uribe

“Desde la Mesa Única Nacional trabajaremos a fondo para superar lo militar y trascender en lo político. Este no es un proceso de paz para las Autodefensas Campesinas, es un proceso de paz para Colombia, de Colombia y por Colombia. De ahí que, para eliminar toda posibilidad que conduzca a un nuevo resurgimiento de la opción armada antisubversiva, nosotros como Autodefensas Campesinas avanzaremos, no hacia la desaparición como Organización, sino hacia la transformación en un movimiento político de masas a través del cual la retaguardia social de las Autodefensas pueda constituirse en una alternativa democrática que defienda, custodie y proteja los intereses, derechos y demandas de nuestras comunidades ante los poderes del Estado.

“Si hay algo que tenemos claro las AUC es el compromiso social. Hemos trabajado por años en la construcción del bienestar comunitario y digno. Hemos defendido las tierras de nuestros campesinos, se ha sembrado la confianza en el campo y en el desarrollo socio-económico. Y hoy, hay que dejar algo claro: no abandonaremos esta misión social que ha caracterizado la organización y, es más: que fue parte de nuestro nacimiento.

“Veintidós años en el campo de la guerra conllevaron, a hacer nuestras, un cúmulo de fidelidades lentamente construidas y a generar un entorno de solidaridad colectiva que terminaron por transmitir un gran poder político y social a las Autodefensas Campesinas. Esta realidad nos impone un compromiso con las comunidades, más allá de la seguridad que les brindamos durante el largo período de ausencia estatal.

“No es posible concebir un sueño de paz duradero para los colombianos, si al lado de las bases militares no construimos hospitales y escuelas para los niños del Paramillo, de la Sierra Nevada, del Catatumbo, del Sur de Bolívar y de esos tantos territorios marginados que hay en Colombia.

“Las Autodefensas Campesinas en este proceso de paz no demandamos la destrucción o transformación de las estructuras políticas, económicas y sociales del Estado y la sociedad, pero sí exigimos justicia social.

“No nos apartamos de las dificultades de orden fiscal que enfrenta el Gobierno nacional, pero confiamos en que los enormes recursos que le ahorraremos a Colombia, al abandonar la guerra, serán destinados al propósito noble de construir la paz social que significa empleo, vivienda digna, educación, salud, servicios públicos básicos y seguridad social. Es decir, bienestar y sosiego para las nuevas generaciones que no merecerán jamás heredar esta larga noche de tragedia, muerte y ruina, que vivimos y pagamos las víctimas de esta guerra absurda.

“El fin de este proceso no será únicamente lograr una firma en un acta simbólica, sino trabajar en el seguimiento de una gestión político-social. Nos afianzaremos como mediadores comunitarios, a través de un movimiento político en el que tendrá cabida todo aquel que desee construir un nuevo país y fortalecer las instituciones partiendo de la transparencia y la participación ciudadana.

“A partir de hoy, en un verdadero acto de fe, tomaremos posesión del puesto que nos corresponde en la misión de construir la paz. Invocamos de Dios, la provisión de su misericordia infinita, para que su luz despeje las incertidumbres y dificultades del camino largo que emprendemos en este día memorable.

5. La agenda de negociación con Uribe

“La negociación que se inicia en el día de hoy comienza por el desarrollo de los aspectos políticos, procedimentales, de asistencia social y de beneficios jurídicos que conlleven a un acuerdo que permita la superación definitiva del conflicto armado. El proceso concluye cuando nos hayamos incorporado todos a la vida civil, en condiciones de normalidad.

“Daremos comienzo a nuestra misión, exponiendo ante Colombia y el Gobierno nacional, la propuesta de cinco grandes temas que conforman nuestra agenda básica de negociación, estos son: 1. Derechos Humanos, Derecho Internacional Humanitario, redefinición y verificación del cese de hostilidades. 2. Implementación y aplicación de políticas integrales de la tesis de seguridad democrática en las regiones de influencia de las Autodefensas Campesinas, tanto en el campo militar de la seguridad como en el campo social de la inversión. 3. Definición, ubicación y reglamentación de las zonas de concentración. 4. Erradicación y sustitución de cultivos ilícitos, en las zonas de influencia de las Autodefensas Campesinas. 5. Seguridad jurídica, derechos civiles, políticos y garantías de reincorporación a la vida civil.

“Desde este escenario de Santa Fe de Ralito convocamos a la gran audiencia nacional, y a la comunidad internacional, para que mantengamos una fluida interlocución que nos ayude a enriquecer de razones nuestro propósito indeclinable de paz. Bienvenidos aquí las FARC y el ELN, exponentes de la izquierda y la derecha, defensores de los Derechos Humanos, dirigentes de los partidos políticos, líderes sindicales, miembros de las iglesias, indígenas, directivos de Organizaciones No Gubernamentales, dirigentes comunales, negritudes y exguerrilleros, periodistas y escritores públicos, estudiantes, profesores y académicos .en fin, bienvenida Colombia entera, aquí la paz nos da cabida a todos.

“La prédica de las guerrillas no debe confundir a nadie a estas alturas del siglo XXI: la guerra subversiva de las guerrillas comunistas es una guerra contra todos los colombianos, no solamente contra los combatientes que le hacen frente y se alzan contra ellas. La de las guerrillas comunistas colombianas es una guerra anacrónica y sin futuro contra las libertades y la dignidad del Pueblo colombiano. Y toda guerra contra las libertades y la dignidad de cualquier Nación de la tierra es también una guerra contra la Humanidad

“La Hora de la Paz ha llegado a Colombia. Nada volverá a ser igual para los enemigos de la convivencia pacífica entre los colombianos. A partir de esta histórica jornada de Santa Fe de Ralito se traza una línea clarísima de un antes y un después irreversibles en el conflicto político armado colombiano. Quienes insistan en la apelación a la guerra y se nieguen, atrapados en su estrechez mental, a iniciar conversaciones serias de paz recibirán el escarmiento militar de las armas de la democracia y la Constitución, y el repudio activo y plebiscitario de la población colombiana, así como el aislamiento internacional reservado a los enemigos de la Humanidad

“No olvidemos en nuestra oración a Dios a ninguno de los muertos en esta horrible noche que aún no cesa, ni a los muertos en nuestras filas ni a los muertos de nuestros enemigos. Ni a los muertos inocentes, conocidos o desconocidos que todas las guerras traen consigo, ni a los huérfanos, ni a las viudas, ni a los mutilados y lacerados por la guerra. Pedimos perdón a Dios por lo que no supimos hacer bien, por nuestras equivocaciones y extravíos y también pedimos perdón a nuestros hermanos en Dios por lo que pudimos haber hecho mejor. Que al pedir y al conceder cristiano perdón, llegue el alivio que todos los colombianos necesitamos en nuestras almas y en nuestros corazones

Que Dios, a través de nosotros, realice sus designios de paz para todos los colombianos. “

6. Después de Dios y la democracia: vuelta a la realidad narcoterrista

Después de su comparecencia ante el Congreso Colombiano, los tres narcoterroristas se cuidaron, textualmente, de salud. A solicitud del Alto Comisionado de la Paz, Luis Carlos Restrepo, se sometieron a sofisticados exámenes médicos en la clínica de la Fundación Santa Fé, uno de los hospitales preferidos y más caros de la elite bogotana. Pagaron la cuenta de su propio bolsillo, al contado.

Dinero no le falta a la contrarrevolución. Tiene tres fuentes de ingreso seguro: a) son posiblemente el sector más fuerte de la industria del secuestro; b) su control de grandes zonas del país y su colaboración con los militares y autoridades civiles les garantiza amplios ingresos de recursos públicos transferidos hacia alcaldías, municipalidades y gobernaciones y c) se han convertido en los principales dueños de la producción y del comercio de estupefacientes.

Tan sólo en tres semanas del mes de julio, cuando Duque, Mancuso e Isaza pronunciaron públicamente sus piadosas mentiras sobre democracia, mediación comunitaria, ética y Dios, la Policía Nacional incautó, según datos de su comandante, general Jorge Daniel Castro, alrededor de 20 mil kg (¡) de estupefacientes, en su absoluta mayoría cocaína.

Desde la Isla Providencia (1.500 kgs) en el norte, al departamento César, fronterizo con Venezuela (3.500 kgs), hasta la Sierra Nevada de Santa Marta (1.450 kg) y el departamento de Valle (3.400 kg), las AUC han cubierto la República con una red de narconegocios que les proporciona decenas de millones de dólares al mes.

Esas inmensas sumas se lavan de diversas maneras, pero no es insólito ver en los aeropuertos del Ecuador aterrizar gente de buen vestir procedente de Bogotá, con maletas de mano llenas de dólares; como aquél caballero que llegó hace tres semanas con un millón de dólares en su equipaje de mano y con los papeles aduaneros de Bogotá perfectamente en regla.

De esta forma han emigrado “legalmente” treinta millones de dólares en los últimos tres meses desde Colombia vía un solo aeropuerto, en el Ecuador. Y todo esto, tomando en cuenta, que el gran contrabando se realiza por las costas de Guayaquil, contrabando que está controlado por dos fuerzas políticas ecuatorianas y sus clanes dominantes.

Mientras “Ernesto Baez de la Serna” anunciaba en el Congreso que "la producción de las drogas ilícitas, desprovista de la protección de las organizaciones armadas comunistas o anticomunistas, tendrá sus días contados”, la policía descubrió en la zona de dominio del Bloque Central Bolívar (BCB), que encabeza Duque, un gran complejo cocalero, incluyendo un Hansa Jet (HFB-320) de fabricación alemána, con un valor estimado en seis millones de dólares, comprado en el mes de julio en Venezuela.

Es justo en esta zona de control de los escuadrones de muerte paramilitares, el Departamento de Bolívar, donde los “mediadores comunitarios” de Uribe ejercen uno de los peores terrorismos de Estado en toda América del Sur, como encontró el Tribunal Internacional de Opinión sobre los crímenes cometidos en la jurisdicción de los municipios de Bolívar, cuando juzgó en Paris, en noviembre del 2003, "plenamente acreditada la culpabilidad del Gobierno de la República de Colombia" en los hechos constitutivos de "crímenes de lesa humanidad, genocidio y terrorismo de Estado”.

Durante años, sucesivos gobiernos colombianos mantuvieron la mentira de que era imposible castigar a los terroristas paramilitares, porque no se conocían sus escondites. Al menos esta mentira de la propaganda estatal ya no la puede mantener.

A su regreso al departamento de Córdoba, Mancuso fue recibido en la capital Montería por comerciantes, ganaderos y otros sectores como un héroe, protegido con un gigantesco despliegue de seguridad de la policía y del ejército. No lejos de la base de Mancuso, en el corregimiento de El Sabanal, el terrorista tiene un famoso vecino que a veces pasa el fin de semana en su finca: se llama Alvaro Uribe.

7. Bush-Moscoso rehabilitan los Escuadrones de Muerte de Miami

Dentro de este conflicto hemisférico entre la Doctrina Monroe y la Segunda Independencia se sitúa el indulto para los cuatro terroristas cubano-estadounidenses, otorgado por la Diseñadora de Interiores del Miami Dade Community College y Presidenta de la República de Panamá, Mireya Moscoso. La dama, galardonada con el Doctorado Honoris Causa en Leyes, del Converse College Spartanburg, Carolina del Sur; el Doctorado Honoris Causa de Ciencias Navales de la Ocean University, República de China (Taiwán) ---probablemente, porque vive al lado de un canal---; el Doctorado Honoris Causa de Humanidades del Dowling College, Nueva York y la Orden de la Unidad Latinoamericana como "La Mejor Mujer de América" otorgada por la Unión de Mujeres Latinoamericanas - sede Bolivia, avanzó la remilitarización gringa de Panamá al pronunciar la necesidad de una fuerza militar multinacional para proteger al país istmeño de los terroristas árabes y legalizó a los escuadrones terroristas internacionales de Washington, tal como lo hizo Uribe con los escuadrones terroristas de Colombia.

Ambas decisiones son parámetros inequívocos de que Washington está decidido de impedir la concreción del Bloque Regional de Poder (BRP), al costo que sea. El acercamiento de Martín Torrijos al BRP, vía Kirchner, y la constitución del Movimiento por la República Bolivariana del Ecuador (MRBE) en el país andino, aísla a Uribe de los vasallos centroamericanos de Washington ---quienes acabaron de bloquear la integración de Cuba al Grupo de Río---, por una parte, y de los vasallos sudamericanos (Gutiérrez, Toledo, Lagos), por otra.

Al fracturarse el eje reaccionario del Pacífico, todo el control gringo del espacio andino-caribeño se debilita y se fortalecen los prospectos de integración Venezuela-Cuba-Argentina-Bolivia-Ecuador-Panamá-Brasil, con la perspectiva histórica de la Segunda Independencia.

Ni los Republicanos, ni los Demócratas están dispuestos a tolerar este desarrollo. Hay que conquistarlo, por lo tanto, por la vía de la fuerza que es el Bloque de Poder: Pueblos-Estados progresistas. No hay otra alternativa.

11.8.2004

A 35 años de la muerte del Inti Peredo Lo mataron pero no se rindió

Luis Hernández Serrano La Fogata

Hoy se cumplen 35 años de la muerte del mítico guerrillero Guido Alvaro Peredo Leigue (Inti). La boliviana Anna Elena Recacoechea, compañera de luchas y madre de su primer hijo, narra cómo lo capturaron, torturaron y asesinaron en la capital de su país natal.

I

'El Inti que yo conocí fue uno de los hombres más revolucionarios y más grandes que ha tenido la historia de Bolivia'. Así comienza el testimonio de Anna Elena Harvey de Recacoechea, en su casa del reparto capitalino de Bahía, en La Habana del Este, donde radica el Comité de Defensa de la Revolución que lleva el nombre del mítico guerrillero.

'Inti murió cuando estaba preparando la segunda guerrilla en las selvas de mi tierra boliviana. Yo fui una de sus compañeras de lucha en el seno del Partido, y lo recuerdo con la misma claridad que cuando compartíamos una reunión, cumplíamos una tarea partidista, y sobre todo el amor que sentía por su hijo Peter Inti.

El se entregó en cuerpo y alma a organizar un nuevo frente guerrillero, tal como había prometido, luego de la dolorosa muerte del Che. Claro, lo hizo en la más absoluta clandestinidad y eran muy pocos los que sabían dónde estaba cuando lo fueron a buscar'.

II

Dice Anna que le dieron un cuartico pequeño, en la parte de afuera de la edificación donde se encontraba, exactamente en el número 584 de la calle Santa Cruz, entre Isaac Tamayo y Max Paredes, en La Paz.

'Su muerte fue el resultado de una infame delación en la que no fue uno solo el delator. Lo he pensado siempre y ahora insisto en eso, porque cuando dieron con el sitio exacto donde se refugiaba, estaba solo, como para que nadie más peligrara en ese combate a muerte que sostuvo. Para mí, uno de los traidores estuvo en esa casa donde Inti creyó que estaba seguro.

'Si, la prensa reaccionaria publicó que fueron solo 12 ó 13 automóviles los utilizados por la Policía y el Ejército que rodearon la casa donde Inti se protegía, pero en verdad los cuerpos represivos llevaron al lugar varios camiones repletos de militares armados hasta los dientes: 150 fieras contra un hombre, 150 contra uno solo'.

Cuenta Anna que Inti se batió a tiros contra esa fuerza superior en número y armas: 'Resistió el ataque durante una hora y solo pudieron capturarlo vivo, porque su pistola Browning se le quedó sin balas, su fusil M-1 se le encasquilló, y la granada que él se proponía guardar para volar junto a sus captores antes de caer en poder del enemigo, alguno de los traidores se la llevó de la casa sin que él se percatara del hecho. Siempre he estado convencida de eso, porque él dijo que así actuaría en tal caso, pero lo sorprendieron sin que él pudiera darse cuenta de ese detalle de la traición.

'Ello explica porqué cayó en manos de los verdugos, encabezados por el sanguinario Roberto Toto Quintanilla, quien personalmente lo torturó en forma criminal. Yo me sé de memoria este triste y doloroso episodio del 9 de septiembre de 1969, hace 35 años, no solo porque Inti era una de las personalidades más valiosas de la historia de Bolivia, un revolucionario de altísimo calibre, sin duda la mano derecha del Che en la histórica guerrilla, sino también porque fue mi compañero del Partido, mi amigo, mi hermano, y el padre de mi único hijo, de Peter Inti. Le pusimos Peter por Tchaicovski e Inti por él.

'Quiero insistir en que lo sacaron vivo, herido de bala, y que pudieron haberlo salvado, operándolo, pero no recibió alguna atención médica. Al contrario, lo llevaron enseguida para un campo de concentración de los que crearon cuando Hugo Banzer estuvo en el gobierno, de esos que ayudó a construir el nazi Klaus Barbie en La Paz, ubicado en Achocalla.

'Salvajemente lo torturó Toto Quintanilla. El mismo que le mandó a cortar las manos al cadáver del Che. Lo golpeó de modo brutal y con un culatazo de su fusil le destrozó la columna cervical. Después lo presentaron a la prensa como muerto en combate, pero fueron claras las señales de las brutales torturas a que fue sometido, porque no habló ni una sola palabra. Querían saber, por supuesto, quiénes formaban parte del grupo que se alzaría de nuevo en las montañas.

III

'Cuando murió Inti y se publicó la falsa noticia de que había caído en combate, nos reunimos la familia y los compañeros del Partido. Estaba allí mi niño, que tenía entonces cinco años. Después no hubo sepelio, ni entierro masivo, ni nada. Tuvieron miedo al pueblo, como siempre les ocurre a las tiranías.

'Se hicieron muchas gestiones, pero todo resultó inútil. Varios días después nos avisaron para que acudiéramos a la iglesia del cementerio. Solo permitieron que fuéramos cinco mujeres y dos hombres. En cuanto llegamos nos mostraron el ataúd y abrieron el cristal para que confirmáramos que era él. Para mí fue tremendo verlo muerto, aquel hombre que parecía no tener muerte. Allí estaba la esposa de un primo hermano de Inti que era como su hermano. Por parte del gobierno vi a Benavides, el Jefe de la Inteligencia. La familia se llevó el cadáver para la estancia Las Perlas, en El Beni, donde hoy se conservan sus restos. Recuerdo que murió a los 17 días de cumplirse el segundo aniversario de la muerte de su hermano Coco Peredo'.

Cuenta Anna que le llamó mucho la atención que Adolfo Siles Salinas, el presidente de Bolivia al morir Barrientos, comentó que Inti 'era un rebelde con causa'.

'Recuerdo que era alto de estatura, y tenía 32 años cuando fue asesinado. Tenía una personalidad muy sólida'.

'Ingresé al Partido Comunista donde él también militaba. Partió a cumplir una misión al exterior y al regresar fue que lo conocí. Yo escuchaba hablar del camarada Inti, del camarada Inti, hasta que un día lo tuve frente a mí. Comenzamos a charlar. Era muy introvertido.

'Nosotros hacíamos trabajos del Partido, pirueteábamos el periódico, hacíamos reuniones, pues estuvimos en la misma célula. Estoy hablando de finales de la década del 50, antes de que él iniciara los preparativos para la guerrilla del Che.

'Yo no sabía dónde estaba. Me enteré por una noticia de Radio FIDES, de La Paz, una emisora religiosa, donde se anunció su muerte. Eso fue en junio de 1967. Se pidió que sus familiares acudieran a la Policía para recoger algunas de sus pertenencias. Entonces me llamaron los compañeros del Partido y me dijeron que no creyera tal falsedad.

'Esa noticia era una trampa. También era falso que había muerto. El presidente Barrientos, en un sucio simulacro, condecoró al supuesto matador del guerrillero.

Escrito por el Che, el Comunicado No. 4 del ELNB, dio un rotundo mentís a lo anunciado: 'Inti Peredo, efectivamente, es miembro de la Jefatura de nuestro ejército, donde ocupa el cargo de Comisario Político y bajo su mando estuvieron recientes acciones. Goza de buena salud y no ha sido tocado por las balas enemigas; el infundio de su muerte es el ejemplo palpable de las mentiras absurdas que riega el ejército en su impotencia para luchar contra nuestras fuerzas'.

IV

Ciertamente Inti llega a convertirse para unos en consigna, para otros en leyenda, y para el imperialismo norteamericano en una pesadilla. Tan es así que en un afiche que el ejército y la CIA distribuyeron por todo el país, pedían por él una recompensa altísima.

Inti era hijo del escritor boliviano Rómulo Peredo. De acuerdo con su esposa, Selvira Leigue, le ponen al niño una porción del nombre de un personaje de su novela Aillo Inti, o familia del Sol. En quechua Inti significa Sol. Nació en Cochabamba, el 30 de abril de 1937 y de muy niño sus padres lo llevan para Trinidad, departamento de El Beni.

Se convierte en cuadro de la Juventud Comunista, llega a ser su secretario general en Trinidad, e integra en 1950 el grupo de jóvenes fundadores del Partido Comunista en El Beni. De simple militante, alcanza la membresía del Comité Central hasta su ruptura con la línea claudicante impuesta por Mario Monje, entonces máximo dirigente partidista.

Viaja a Chile a estudiar en la escuela de cuadros del Partido, y después a Moscú. En 1963 presta valiosa ayuda en la organización y apoyo logístico a la guerrilla de Salta, en Argentina, encabezada por el periodista Jorge Ricardo Masetti y colabora con los revolucionarios peruanos.

En marzo de 1966, José María Martínez Tamayo (Ricardo), contacta con Inti para iniciar los preparativos del frente guerrillero en Bolivia. Ya en mayo elabora un informe para un Congreso del Partido donde plantea la necesidad de la lucha armada.

Se decide su viaje a Cuba y el 25 de julio de aquel año viaja a la Isla con nueve militantes. En octubre reciben la orden del citado dirigente del Partido de regresar a Bolivia, lo que cumplen solo por disciplina.

Llega a Cochabamba el 12 de noviembre y 15 días después se une en la selva a la guerrilla del Che. Cuando el 31 de diciembre Monje, en Ñacahuazu los conmina a dejar la lucha, encuentra en Inti y los demás la negativa a esa actitud traidora.

'Yo escuché por casualidad la noticia verdadera de su muerte, cuando estaba estudiando en la Escuela Normal para Maestros, donde era secretaria comercial.

'Inti, tras el asesinato del Che en la escuelita de La Higuera, fue uno de los pocos que logró salir del laberinto de la jungla, al asfalto de la ciudad y se convirtió en el reorganizador del ELNB.

'Los guerrilleros que pudieron burlar el cerco, hicieron un juramento: continuar la lucha. Logran salir, después de un montón de peripecias y por gestiones clandestinas de Inti, llegan hasta el lugar de la frontera con Chile donde los recibe el entonces senador chileno Salvador Allende.

'Inti después se va a Oruro, más tarde a La Paz, y posteriormente a Cochabamba, todo en el más absoluto secreto. Preparó la segunda guerrilla y decidió marchar a Cuba. Al regreso lanza su Manifiesto en el que dice: "Volveremos a las montañas", en el que anuncia el reinicio de la lucha'.

'Ese llamamiento hizo que el gobierno arreciara su búsqueda y desatara una fuerte ofensiva para capturarlo, pero como volvió de Cuba más grueso, con otro aspecto -'pues él era más bien delgado-', no lo reconocían fácilmente. La traición fue lo único que lo puso en manos del enemigo, porque él actuaba como un artista del clandestinaje.

'Ya no puedo precisar exactamente la última vez que lo vi ni tampoco el lugar, pero no he podido olvidar su valor y su entereza. A 35 años de su muerte heroica, solo me tranquiliza pensar que fue un hombre del Che, que no traicionó nunca a su jefe ni a su pueblo, y que cada vez que se diga Inti, como en quechua significa Sol, me parecerá que se dirá: el Sol sigue alumbrando la lucha'.

13 settembre 2004


Comunicado de prensa Los obreros de Zanon marchamos en Capital Federal

Los obreros de Zanon marcharemos el 14 de Septiembre en Capital Federal.

En la reunión de solidaridad convocada en el Hotel Bauen el pasado 20 de Agosto, los obreros de Zanon, junto a más de 200 organizaciones presentes resolvimos movilizarnos en Capital Federal.

Primero al juzgado comercial en Marcelo “T” de Alveal para reclamar que se nos otorgue la administración de la fabrica a la Cooperativa FaSinPat y luego hasta Congreso, donde plantearemos la necesidad de una ley nacional de expropiación definitiva para todas las empresas y fabricas ocupadas y recuperadas gestionadas por sus trabajadores.

Esta movilización convocada por los Obreros de Zanon, junto a trabajadores de distintas fabricas como los compañeros de Gatic, de Renacer de Ushuaia y decenas mas de todo el país, será acompañada por organizaciones Sociales, Organismos de DDHH, Sindicatos, Delegados, compañer@s Piqueteros, compañer@s de Asambleas, Estudiantiles, Religiosas, partidos Políticos, etc.

En el congreso seremos recibidos por diversos bloques de diputados, y senadores donde explicaremos en conferencia de prensa la necesidad de una Ley Nacional de expropiación definitiva de todas las fábricas y empresas ocupadas y recuperadas por sus trabajadores.

Invitamos a todas las organizaciones a marchar juntos.

CONVOCAMOS A TODOS AL “HOTEL BAUEN” EL DIA 14 DE SETIEMBRE A LAS 11,00 HS. DONDE PARTIRA LA MARCHA HACIA EL JUZGADO Y LUEGO AL CONGRESO.

OBREROS DE ZANON SINDICATO CERAMISTA DEL NEUQUEN Carlos Acuña 0299 155.837111 Alejandro Lopez 0299 154.016923 Raul Godoy 0299 154.052657 prensaobrerosdezanon@neuent.com.ar www.obrerosdezanon.org


Testimonio de Boris Navia, militante comunista que salvó la última canción de Víctor El último aliento de Víctor Jara

Mario Amorós La Clave

El abogado chileno Boris Navia aún conserva las tapas de aquella libreta donde Víctor Jara escribió su última canción, “Estadio Chile”, horas antes de ser asesinado por los militares la tarde del 15 de septiembre de 1973. Treinta y un años después evoca la agonía del principal autor de la Nueva Canción Chilena y cómo, a pesar de las torturas y los interrogatorios, pudo salvar sus hermosos versos.

El 11 de septiembre de 1973 Boris Navia contempló el bombardeo de La Moneda desde la Universidad Técnica del Estado, donde era profesor de Derecho, en compañía de cerca de mil personas, entre ellas Víctor Jara. Por la noche se refugiaron en la cafetería de la Escuela de Artes y Oficios, donde éste interpretó por última vez algunas de sus canciones para levantar los ánimos de los presentes. A las siete de la mañana les despertó el estampido del cañón de 120 milímetros y los diversos equipos de artillería con que las Fuerzas Armadas bombardeaban una casa de estudios de orgulloso perfil izquierdista.

Los soldados recorrieron todo el recinto y en la avenida sur reunieron a sus centenares de “prisioneros de guerra”, a los que obligaron a permanecer tumbados boca abajo durante cinco horas y sometieron a todo tipo de palizas. A las tres de la tarde fueron conducidos a las pistas de fútbol sala y dos horas después les ordenaron que se dirigieran corriendo en fila india y con las manos en la nuca al Estadio Chile, situado a tan sólo seis manzanas. En la entrada del mayor polideportivo cubierto del país un oficial reconoció a Víctor Jara, le apartó con todo tipo de insultos y le propinó una lluvia de golpes cargados de histeria y brutalidad: “Yo te enseñaré, hijo de puta, a cantar canciones chilenas, no comunistas”.

Boris Navia, militante comunista, jamás podrá olvidar aquellos instantes: “En un momento el oficial desenfundó su pistola; nosotros, apuntados por fusiles, estábamos horrorizados porque pensábamos que le iba a descerrajar un tiro y, pese a la orden de avanzar, nos quedamos transidos frente al horror de la tortura de nuestro querido cantor. Víctor no se quejaba, ni pidió clemencia, tan sólo miró con su rostro campesino al torturador fascista, que le golpeó con el cañón del arma y su pelo se empapó de su sangre, al igual que su frente, sus ojos... La expresión de su rostro ensangrentado quedó grabada para siempre en nuestras retinas”.

Dentro del Estadio Chile los militares confinaron a Víctor a un pasillo, mientras que sus compañeros de la UTE se hacinaban en los graderíos junto con otros miles de detenidos, en su mayor parte obreros, en una atmósfera donde primaba el terror impuesto por unos militares que se sentían en guerra contra “el marxismo”. Acompañado tan sólo por Danilo Bartulín, uno de los médicos del Presidente Salvador Allende detenido en La Moneda la tarde del 11 de septiembre, el autor de “Te recuerdo Amanda” volvió a padecer atroces torturas hasta las tres de la madrugada.

Hasta aquel día el Estadio Chile ocupaba un lugar relevante en su vida ya que en 1969 ganó allí el Primer Festival de la Nueva Canción Chilena con una de sus creaciones más hermosas, “Plegaria a un labrador”, una exhortación a quienes derraman su sudor sobre la tierra y extraen de ella sus frutos a unirse a sus compañeros para forjar juntos la nueva sociedad: “Levántate / y mírate las manos / para crecer estréchala a tu hermano, / juntos iremos unidos en la sangre / hoy es el tiempo que puede ser mañana...” Aquella noche, en el abarrotado recinto deportivo rebautizado en septiembre pasado como Estadio Víctor Jara, también actuaron Isabel y Angel Parra, Rolando Alarcón, Patricio Manns o Inti Illimani y aunque el ganador fue él, acompañado en el escenario por Quilapayún, aquel Festival alumbró un inolvidable movimiento cultural que acompañó a su pueblo en aquellos tres años de construcción del socialismo. Porque, como decía Víctor Jara: “La canción auténtica, la revolucionaria, tiene que cambiar al hombre para que éste cambie la sociedad”.

Brota la poesía.- La tarde del 13 de septiembre se produjo un cierto revuelo en el Estadio Chile, recuerda Boris Navia, ya que se rumoreaba que en la cercana población La Legua partidarios del derrocado gobierno de Allende se habían enfrentado con las Fuerzas Armadas. “Todos los soldados se dirigieron a la entrada y se olvidaron de Víctor, por lo que lo arrastramos a la grada e intentamos disfrazarle un poco: . Y cuando nos ordenaron que hiciéramos listas de veinte personas para el inminente traslado al Estadio Nacional, pusimos su nombre completo: Víctor Lidio Jara Martínez”.

Después de comer un huevo crudo, este cantautor empezó a recobrar su contagiosa alegría y, apunta Navia, “mostró la misma sonrisa con la que cantó al amor y a la revolución”. Aquella noche durmió junto a sus compañeros de la Universidad Técnica del Estado en los incómodos graderíos del Estadio Chile. El viernes 14 los militares repartieron café entre los prisioneros y les comunicaron que iban a trasladarles al Estadio Nacional, pero finalmente un tiroteo les devolvió a los asientos cuando ya se disponían a salir. Entonces Víctor habló a sus compañeros del amor que sentía por su esposa, Joan, y sus hijas, Amanda y Manuela, pero no se refirió al futuro, por lo que intuyeron que presentía su trágica suerte.

Al día siguiente supieron que dos o tres personas iban a ser dejadas en libertad y se aprestaron a escribir mensajes para que los entregaran a sus familiares. “Víctor estaba sentado entre otro compañero de la UTE y yo, y me pidió un papel -señala Boris Navia-. Le di dos hojas de una libreta cuyas tapas aún conservo y escribió hasta que de repente dos soldados llegaron y le condujeron a una caseta de transmisión, aunque antes logró entregarme los dos papeles sin que se dieran cuenta. Unos oficiales de la armada le insultaron y golpearon con furia”.

A las seis de la tarde su grupo fue conducido al anfiteatro y desde allí pudieron divisar, horrorizados, el cuerpo inerte de Víctor Jara entre una cincuentena de cadáveres acribillados; minutos después fueron conducidos en autobuses militares al otro extremo de la ciudad. “Entramos al Estadio Nacional dejando un reguero de lágrimas por nuestro querido cantor”, asegura Boris Navia con profunda emoción.

Fue en aquel enorme recinto, convertido en el mayor campo de concentración de la dictadura, cuando este abogado por fin abrió su libreta y descubrió que las dos hojas de Víctor Jara no contenían unas palabras dirigidas a su familia, sino su canción, su última e inconclusa canción, titulada “Estadio Chile”. “Al instante comprendimos su importancia e hice dos copias como pude con dos cajetillas de cigarros”. Días después el ex senador comunista Ernesto Araneda le dijo que dos personas, un médico y un estudiante, saldrían en libertad del Estadio Nacional, por lo que les entregó las reproducciones y, además, se encargó de que un viejo zapatero también preso ocultara las dos hojas manuscritas por Víctor Jara en la suela de su zapato derecho.

Pero en los controles previos a la salida del recinto, los militares descubrieron el texto que portaba el muchacho. “Yo había escrito una pequeña introducción, por lo que me ubicaron y me condujeron al velódromo, donde dos oficiales de la Fuerza Aérea abrieron mi zapato derecho y descubrieron las hojas. Me interrogaron y me torturaron y pensé que mientras más soportara la tortura, más posibilidades habría de que la segunda copia saliera del Estadio. No lograron arrancarme ninguna palabra sobre ella y así el poema de Víctor salió libre del Estadio Nacional, venció al fascismo y ganó la libertad. El militar que le asesinó creyó que mataría su voz, pero Víctor no murió, murió para vivir, vivirá para siempre en el corazón de los pueblos”.

Meses después el último poema de Víctor Jara se publicó por primera vez en el libro Chile en la hoguera del periodista Camilo Taufic, exiliado en Argentina, y finalmente llegó a su esposa y recorrió el mundo para denunciar la ignominia de la dictadura de Augusto Pinochet.

- Anexo: “Estadio Chile”

6 settembre 2004

Ancora una volta i bananeros ammalati a causa del pesticida Nemagòn hanno marciato sotto il cocente sole dell'Occidente nicaraguense ed hanno fatto sentire le loro voci e le loro grida. La marcia che ha attraversato le strade di Chinandega aveva questa volta un duplice obiettivo: dare una scossa alla situazione in cui versa la Commissione Interistituzionale formatasi con gli Accordi del Raizòn firmati nel marzo del 2004 e far sentire la voce delle donne ex lavoratrici delle bananeras che le multinazionali non vogliono riconoscere come "personas afectadas por el Nemagòn". Dopo un percorso di alcuni chilometri, il corteo formato da migliaia di persone é arrivato in una delle piazze principali della città, dove hanno preso la parola membri della Asotraexdan (Associazione degli ex lavoratori e lavoratrici ammalati per il Nemagòn), del Governo e della solidarietà internazionale.

I fatti che hanno anteceduto la marcia Dopo gli Accordi del Raizòn firmati tra Governo e Asotraexdan, i bananeros hanno continuato a mantenere alta la pressione per evitare che calasse la tensione intorno al loro caso. Il Convenio firmato con il Ministero della Sanità (MINSA) é stato rispettato in molti dei suoi punti e in molte parti del paese si sta già offrendo assistenza medica gratuita alle persone affiliate alla Asotraexdan, sotto l'occhio vigile degli stessi bananeros per evitare che persone, che nulla hanno a che fare con la loro lotta, se ne approfittino. Anche una serie di interventi chirurgici e visite mediche specialistiche sono finanziate quasi totalmente dal MINSA. Il vero problema resta quello delle medicine, che molto spesso non esistono nel paese o che il MINSA non é in grado di garantire in grande quantità e quello di alcune operazioni o esami clinici particolarmente costosi che non possono essere effettuati nelle strutture pubbliche.

Ancora in alto mare, invece, lo svolgimento del Censimento per capire effettivamente quante persone si sono ammalate a causa del contatto con il Nemagòn e quindi, a quante persone si dovrà dare copertura sanitaria. Una serie di inconvenienti ha ritardato lo svolgersi del censimento da parte del governo e la stessa Asotraexdan ha cominciato ad effettuarne uno in modo indipendente in base al quale si sta già riconoscendo il diritto all'assistenza sanitaria. Anche la parte relativa alla denuncia che le multinazionali avevano presentato negli Stati Uniti contro i bananeros sembra essere definitivamente risolta.

Il funzionamento della Commissione Interistituzionale, asse portante degli accordi firmati con il governo, ha invece lasciato a desiderare e soprattutto negli ultimi mesi, le riunioni che avrebbero dovuto avere l'obiettivo di stendere una strategia comune tra bananeros-avvocati-governo in vista di negoziazioni con le multinazionali, sono state inutili e prive di contenuti concreti. A questa situazione si é aggiunta l'informazione ricevuta da una delle fonti della Asotraexdan, che il governo attraverso il Ministro dell'Agricoltura (MAGFOR) Augusto "Tuto" Navarro avrebbe iniziato dei dialoghi segreti con le multinazionali per raggiungere un accordo da poi proporre ai bananeros. Oltre all'atto violatorio degli Accordi del Raizòn, le multinazionali stanno cercando di far passare la proposta che le donne ex lavoratrici delle bananeras non rientrino nel diritto agli indennizzi in quanto non avrebbero "lavorato direttamente con le banane e quindi con il Nemagòn". Per tutti questi motivi il 22 agosto é partita questa nuova marcia in cui le donne afectadas hanno urlato il loro diritto ad essere indennizzate esattamente come gli uomini. Come sempre, nella piazza, il silenzio e l'attenzione erano totali, rotti solo dalle urla e dagli applausi di migliaia di persone giunte ancora una volta a difendere i propri diritti. In modo instancabile sono rimasti e rimaste per ore sotto il sole, con una voglia incredibile di arrivare fino alla fine...hasta el fin, nonostante le 780 persone decedute che ormai non faranno più parte di questa lotta.

Durante il suo intervento, il presidente della Asotraexdan Victorino Espinales Reyes, ha usato parole molto dure per ribadire che gli accordi devono essere rispettati e che non é possibile che avvengano negoziazioni clandestine senza il consenso del settore bananero. Ha inoltre sancito la rottura totale con gli altri settori legati ancora con il buffet giuridico di Walter Gutierrez e ha dato il suo totale appoggio alle donne che si sono ammalate a causa del Nemagòn e che, oltre a morire, hanno spesso partorito figli deformi. Ha infine minacciato il governo che se continuerà con questa politica ambigua i bananeros ritorneranno in strada e marceranno nuovamente verso Managua per chiedere ciò che la volta scorsa non gli é stato concesso e cioé i 100 milioni cordobas per le cure mediche e una pensione vitalizia per tutti gli ammalati. Si sono poi succedute varie personalità tra cui il nuovo Procuratore Generale della Repubblica, Alberto Novoa, che si é dimostrato particolarmente sensibile al tema in discussione.

Presentarán pruebas en California contra militar salvadoreño por el asesinato de Monseñor Romero

En la Corte Federal de Modesto, California, será la audiencia, del 24 al 27 de este mes, para presentar pruebas en contra del capitán retirado Alvaro Rafael Saravia, por su participación en el asesinato de Monseñor Oscar Arnulfo Romero, según el Centro de Justicia y Responsabilidad (CJA por sus siglas en inglés).

En Septiembre del año pasado, la CJA y la firma de abogados Heller Ehrman White & McAuliffe, interpusieron una demanda civil contra Saravia, por participar, en 1980, en el asesinato de Monseñor Romero. En esa fecha, Saravia residía en Modesto, y a la fecha se ignora dónde reside y se anticipa que no estará presente en la audiencia.

Saravia, quien fuera mano derecha del desaparecido Roberto D´Aubuisson, fundador del partido ARENA, se trasladó a los Estados Unidos a mediados de los años 80´s, y en Modesto era propietario de una venta de repuestos para automóviles, de acuerdo a una noticia publicada por el periódico The Washington Post.

El ex capitán fue arrestado en 1987 por agentes de inmigración de los Estados Unidos a instancias de los acusadores, quienes requirieron la extradición por el caso de Monseñor Romero. Pero, los esfuerzos por extraditarlo eventualmente cayeron y Saravia fue liberado después de pasar 14 meses en la cárcel, según The Washington Post.

En la próxima audiencia se anuncian como testigos a declarar Atilio Ramírez Ayala, quien en 1980 fuera el juez asignado al caso de Monseñor Romero; María Julia Hernández, directora de Tutela Legal, quien colaboró con Monseñor Romero. Asimismo, declarará por medio de un video el ex Embajador de los Estados Unidos en El Salvador, Robert White.

De acuerdo a la acusación inicial, Saravia fue el que obtuvo las armas, vehículos y otros equipos para el asesinato de Monseñor Romero. Asimismo, fue el que designó al conductor del vehículo para el transporte del asesino a quien le pagó luego de cometido el hecho.

Monseñor Romero era el principal crítico de los escuadrones de la muerte, y de las violaciones de los derechos humanos realizadas en aquel entonces por la Fuerza Armada, y las desaparecidas Policía Nacional, Guardia Nacional y Policía de Hacienda. Romero fue asesinado el 24 de marzo de 1980 mientras ofrecía una misa en la Iglesia del Hospital Divina Providencia.

La CJA, en su página web, ha colocado un cuestionario para los que deseen atestiguar, en el que los testigos deberán contestar preguntas relacionadas al impacto que tuvo en sus vidas la labor y muerte de Monseñor Romero, repartidas en cinco apartados: Conocimiento de Monseñor Romero, El asesinato de Monseñor Romero, El impacto del asesinato, El legado o enseñanza de Monseñor Romero, y si se conocen a personas adicionales que quieran compartir los puntos de vista del testigo.

De acuerdo a la página web de CJA, Saravia no ha contestado ninguna de las alegaciones.

El presidente Chávez y el referéndum: mitos y realidades

James Petras Rebelión Traducido para Rebelión por J. A. Julián

Entre la frustración de la derecha y la euforia de la izquierda, poco se ha hablado de la compleja y contradictoria realidad política venezolana y de la especificidad de las políticas del presidente Chávez. Todavía menos se ha debatido la división entre un Washington dominado por la ideología y un Wall Street pragmático, entre las políticas de confrontación y las de conciliación, y entre las convergencias y las divergencias de Venezuela y el resto de América Latina. Tanto la derecha como la izquierda han vuelto a sus respectivos mitos sobre el Gobierno bolivariano de Chávez en lugar de analizar las realidades concretas.

Mitos revisados Mito nº 1 – Chávez es un presidente impopular al que puede derrotar en un referéndum la oposición de derechas.

Realidad – La derecha y sus patrocinadores de Washington realizaron un cálculo equivocado en varios sentidos. En primer lugar, el momento de máxima debilidad del Gobierno chavista fue después del lock-out ejecutivo de la compañía petrolera estatal PVDS, que duró desde diciembre de 2002 hasta febrero de 2003, en un momento en que los precios del petróleo eran mucho más bajos que ahora, la economía venezolana estaba devastada, los programas de bienestar social del Gobierno no contaban con los fondos necesarios y las organizaciones políticas de base eran débiles. Un año y medio más tarde, en agosto de 2004, en el momento de la celebración del referéndum, las condiciones socioeconómicas y políticas habían cambiado drásticamente. El ritmo de crecimiento de la economía era del 12%, los precios del barril de petróleo eran los más altos en muchísimo tiempo, las inversiones en servicios sociales crecían y su impacto social era visible y afectaba a amplias capas de la población, a la vez que las organizaciones sociales de masas se hallaban profundamente implantadas en las barriadas más populares de todo el país. Claramente, la iniciativa había pasado de la derecha a la izquierda, pero tanto Estados Unidos como sus colaboradores de la oposición estaban ciegos ante esta realidad. Después de haber perdido el control de la industria petrolera estatal y los recursos del petróleo con el lock-out fallido del 2003, y después de haber perdido también influencia en los medios militares tras el golpe de 2002, la oposición disponía de pocos recursos para neutralizar la campaña gubernamental del referéndum y no tenía ningún punto de apoyo para lanzar un golpe "cívico-militar" posterior a la votación.

Mito nº 2 – Según los analistas derechas, el elemento central del referéndum era la "popularidad", el "carisma" y el "estilo autocrático" de Chávez.

En realidad, el referéndum se basó principalmente en una clara división de clase y de raza. Líderes sindicales no vinculados a la oposición señalaron que más del 85% de la clase trabajadora y de los trabajadores pobres votaba por el presidente, a la vez que los primeros informes sobre la votación en las circunscripciones y los barrios ricos mostraban una situación inversa en un porcentaje del 80%. Un proceso similar de polarización por clases y razas era evidente en la extraordinaria asistencia a las urnas y en el porcentaje de votación entre los afro-venezolanos pobres: cuanto más alta era la asistencia, mayor era el voto favorable a Chávez (votó un 71% del electorado, cifra inaudita). No hay duda de que el presidente tuvo éxito en la vinculación de los programas de asistencia social y la identidad de clase al comportamiento electoral.

Mito nº 3 – Tanto en la derecha como en izquierda se cree que los medios de comunicación de masas controlan el comportamiento masivo a la hora de votar, limitan las agendas políticas y conducen necesariamente a la victoria de la derecha y a la domesticación de la izquierda.

En Venezuela, la derecha controla el 90% de las principales cadenas de televisión y medios de prensa, y la mayor parte de las principales estaciones de radio. No obstante, Chávez ganó el referéndum con un margen del 18% (59% contra 41%). Los resultados del referéndum demuestran que unas organizaciones de masas potentes organizadas en torno a luchas exitosas por las reformas sociales pueden crear una conciencia política y social en las masas que permita rechazar con fácilidad la manipulación mediática. El optimismo de las élites, basado en su "poder estructural" –dinero, monopolio de los medios de comunicación y respaldo de Washington–, las cegó ante el hecho de que la organización colectiva consciente puede ser un contrapeso formidable a los recursos de que disponen los más favorecidos. Del mismo modo, los resultados del referéndum refutan el argumento del centro-izquierda de que pierde las elecciones por culpa de los medios de comunicación de masas. El centro-izquierda justifica su adopción del neoliberalismo como un medio para "neutralizar" los medios de comunicación de masas durante las elecciones. El centro-izquierda sigue sin reconocer que las elecciones se pueden ganar a pesar de la oposición de los grandes medios de comunicación si antes la organización y la lucha de las masas han creado una conciencia social apropiada.

Mito nº 4 – Según muchos periodistas de izquierda, la victoria de Chávez refleja una nueva ola de nacionalismos populistas en América Latina.

Existen abundantes pruebas en contra de esta opinión. Brasil, bajo la presidencia de Lula, ha adjudicado a las corporaciones trasnacionales estadounidenses y europeas derechos para realizar sondeos petrolíferos, y ha proporcionado un contingente de 1.500 soldados (junto a Argentina y Chile, entre otros) destinado a Haití, para estabilizar el régimen títere impuesto por Washington tras el secuestro del presidente elegido Aristide. Del mismo modo, en los restantes países andinos (Ecuador, Perú, Bolivia y Colombia) los gobiernos elegidos proponen privatizar las compañías petroleras públicas, apoyan el ALCA y el Plan Colombia y pagan religiosamente la deuda externa. Por su parte, el Frente Amplio de Uruguay propone seguir las políticas neoliberales de Brasil. A la vez que Venezuela promueve el bloque comercial regional Mercosur, los principales miembros de éste, Brasil y Argentina, incrementan sus relaciones comerciales fuera de esta región. En realidad, hay un bloque de regímenes neoliberales opuesto a Chávez, a sus políticas antiimperialistas y a los movimientos sociales de masas. Mientras el presidente venezolano mantenga su política exterior independiente, sus principales aliados serán los movimientos sociales de masas y Cuba.

Mito nº 5 – La derrota en el referéndum ha sido una derrota táctica importante del imperialismo estadounidense y de sus vasallos locales.

Sin embargo, una derrota del imperialismo ni significa necesariamente una transformación revolucionaria, ni conduce a ella, como lo demuestran las declaraciones postelectorales de Chávez dirigidas tanto a Washington como al gran capital. Un elemento más indicativo de las políticas chavistas es el próximo acuerdo de inversión de 5.000 millones de dólares celebrado con Texaco-Mobil y Exxon para explotar los campos petrolíferos y de gas del Orinoco. La euforia de la izquierda le impide ver las oscilaciones del discurso de Chávez y del modelo heterodoxo de asistencia social y de políticas económicas neoliberales que práctica constantemente.

Las políticas del presidente han perseguido siempre un cuidadoso equilibrio entre el rechazo al vasallaje respecto a Estados Unidos y la oligarquía rentista nacional, por una parte, y el intento de forjar una coalición de inversores nacionales y extranjeros y pobres urbanos y rurales defensores de un capitalismo del bienestar. Chávez está más cerca del "New Deal" de Franklin D. Roosevelt que de la revolución socialista de Castro. Tras las tres crisis políticas –el fallido golpe militar, la derrota del lock-out ejecutivo, y la derrota de la oposición en el referéndum– el presidente ha ofrecido diálogo y ha propuesto alcanzar un consenso con los principales "barones" de los medios de comunicación y los autócratas de las grandes empresas y del Gobierno estadounidense, consenso basado en las actuales relaciones de propiedad, la propiedad de los medios de comunicación y la ampliación de las relaciones con Washington.

El compromiso de Chávez con las políticas centristas-reformistas explica por qué no llevó ante los tribunales a los propietarios de los medios de comunicación que en su momento hicieron llamamientos al derrocamiento violento de su Gobierno, y también por qué no ha tomado medidas judiciales contra la asociación patronal Fedecámaras, que ha incitado a la rebelión militar y a realizar ataques violentos contra el orden constitucional. En Europa, América del Norte y muchos otros lugares, unos gobiernos democráticamente elegidos hubieran arrestado y llevado ante la justicia a éstas elites por actos de subversión violenta. El presidente Chávez, en cambio, ha reiterado constantemente que sus propiedades, privilegios y riquezas no corren peligro. Además, el hecho de que estas élites hayan estado implicadas en tres intentos anticonstitucionales de derrocar al Gobierno y puedan seguir manteniendo sus posiciones de clase, muestra sin lugar a dudas que el presidente sigue pensando que dichas clases sociales tienen un papel importante que desarrollar en su visión de una asociación entre el sector público y el privado basada en el desarrollo y en un alto nivel de bienestar social. Tras cinco años gobernando y tres importantes "confrontaciones de clase" es evidente que, al menos a escala del Gobierno, no ha habido ruptura en lo que respecta a las relaciones de propiedad o de clase, como tampoco la ha habido con los acreedores extranjeros, los inversores y los clientes del petróleo venezolano. Dentro del mismo marco fiscal de los pagos de la deuda exterior, los subsidios a los exportadores particulares y los préstamos con bajas tasas de interés a los industriales, el Gobierno ha incrementado la asignación de gasto estatal destinada a los programas sociales en materia de salud, educación, vivienda, microempresas y reforma agraria. El Gobierno venezolano puede mantener este equilibrio entre los intereses de la gran empresa y los de los pobres debido al alto precios del barril de petróleo y a los grandes ingresos que proporciona esta materia prima. Igual que los del presidente Roosevelt, los programas chavistas de bienestar social atraen a millones de votantes de bajos ingresos, pero no afectan los niveles de ingreso salarial ni crean proyectos de empleo a gran escala. El desempleo sigue estando en torno al 20% y los niveles de pobreza alrededor del 50%. El gasto social generalizado ha mejorado la existencia de los pobres pero no su posición de clase. Chávez reacciona, alternativamente, de un modo combativo y radical cuando su liderazgo se encuentra en peligro, y de un modo conciliador y moderado una vez que ha conseguido superar las amenazas.

Mito nº 6 – Ni la derecha ni la izquierda han sabido reconocer las diferentes tácticas empleadas, de una parte, por un Washington dominado por la ideología y, de otra parte, por un Wall Street pragmático. La clase política estadounidense (tanto los republicanos como los demócratas, tanto la Presidencia como el Congreso) ha estado activamente implicada en las amenazas, las intervenciones y el apoyo al destructivo lock-out, en el golpe violento, y ha buscado el fraude en el referéndum, a fin de expulsar a Chávez. Contrariamente, las principales compañías petroleras y los bancos estadounidenses y europeos han seguido manteniendo relaciones económicas estables y provechosas con el Gobierno venezolano. Los acreedores extranjeros han recibido puntualmente unos pagos de miles de millones de dólares y no han hecho nada por interrumpir estas lucrativas transacciones. Las principales compañías petroleras transnacionales de Estados Unidos proyectan invertir entre 5.000 millones y 20.000 millones de dólares en nuevas inversiones de exploración y explotación petrolífera. No cabe duda de que esas compañías hubieran visto con buenos ojos la victoria del golpe militar, y con ello la posibilidad de monopolizar todos los ingresos del petróleo venezolano, pero al percibir los errores de Washington están satisfechas de compartir la riqueza petrolera con el Gobierno de Chávez. Las divergencias tácticas entre Washington y Wall Street probablemente se reducirán a medida que el Gobierno de Venezuela entre en una nueva fase de conciliación con Fedecámaras y Washington. Teniendo cuenta la derrota de Washington en el referéndum y los grandes contratos petroleros con las principales transnacionales estadounidenses, Washington buscará probablemente una "tregua" hasta que vuelvan a surgir nuevas circunstancias, más favorables. Será interesante observar el modo en que esta posible "tregua" afecte a la política exterior de Venezuela, tan significativa.

Mito nº 7 – El principal impulso de la actual fase de la revolución de Chávez es una cruzada moral contra la corrupción gubernamental y contra un sistema judicial altamente politizado y alineado con la desacreditada oposición política.

Para muchas personas de la izquierda, el contenido del "no" de la pasada campaña se enmarca en la proliferación de organizaciones comunitarias de base, la movilización de las asambleas sindicales y el proceso de descentralización democrática de participación de los votantes, basado en promesas de futuros cambios sociales en materia de en medio, ingresó y poder político popular.

Por su parte, las campañas moralizadoras (anticorrupción) están asociadas generalmente con las políticas de clases medias destinadas a crear una "unidad nacional", y tienden a debilitan la solidaridad de clase. La creencia de la izquierda de que las organizaciones de base movilizadas para el referéndum se convertirán necesariamente en la base de una "nueva democracia popular" tienen poco fundamento si atendemos al pasado reciente (movilizaciones similares tuvieron lugar antes del fallido golpe de estado y durante el lock-out de los ejecutivos). Del mismo modo, las campañas moralizadoras patrocinadas por el Gobierno tampoco suscitan mucho interés entre los pobres de Venezuela o de otros lugares. Además, el objetivo de los líderes políticos chavistas son las próximas elecciones parlamentarias, no la creación de formas alternativas de gobernancia. La fácil proyección que realiza la izquierda de movilización popular en el periodo posterior al referéndum crea una mitología política que no puede reconocer las contradicciones internas del político proceso político de Venezuela.

Conclusión La masiva victoria popular del "no" en el referéndum venezolano dio esperanzas e inspiración a cientos de millones de personas en América Latina y otros lugares, al mostrar que las oligarquías respaldadas por Estados Unidos pueden ser vencidas en las urnas. El hecho de que los resultados favorables de la votación fuesen reconocidos por la OEA, el Centro Carter y Washington hace honor a los cambios estratégicos realizados por el presidente Chávez en el Ejército, que han garantizado el respeto constitucional. En otro nivel de análisis, más profundo, las concepciones y percepciones de los principales antagonistas de la izquierda y la derecha son sin embargo mucho más criticables: la derecha, por haber superestimado el apoyo político institucional a Chávez en la actual coyuntura; la izquierda, por proyectar una visión claramente radical en la dirección de las políticas en el periodo posterior al referéndum. Desde una posición "realista", se puede llegar la conclusión de que el Gobierno venezolano continuará con sus programas de bienestar social tipo “New Deal” a la vez que profundiza sus vínculos con los principales inversores nacionales y extranjeros. Su capacidad para alcanzar un equilibrio entre las clases sociales, apoyándose en una u otra, dependerá de la continuidad de los altos ingresos que proporciona el petróleo venezolano. Si los precios del petróleo caen, será preciso tomar importantes decisiones: decisiones de clase.

26 de agosto de 2004

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