CONTRIBUTO DI SALVO:

Compagne e compagni di Ror, Dalle riunioni di redazione della radio, prima della chiusura estiva, si legge nelle mail che ci si appresta per i primi di settembre a organizzare riunioni su temi complessi come “comunicazione attraverso il mezzo radio” e l' “autogestione”. Temi impegnativi che, proprio per questa loro prerogativa, dovrebbero essere affrontati e discussi con passione e consapevolezza dalla gran parte (più o meno tutt*) di coloro che partecipano al progetto Ror. Forse è utile, prima di imbarcarsi in questo lavoro dare uno sguardo alla realtà, per primo alla nostra realtà. Negli ultimi mesi (diciamo dall'inizio dell'anno o giù di lì), la riunione del lunedì, che esprime la “riunione di redazione” si è via via svuotata di partecipanti, in particolare sono andate via gran parte delle compagne e dei/delle giovanissimi/e. È un fatto preoccupante, anche perché lo scorso anno questa presenza era molto numerosa, ma recentemente è diminuita moltissimo. Non possiamo trascurarlo e passare oltre. Dobbiamo riflettere a fondo e chiederci il perché. La redazione di Ror non è più accogliente? Penso che abbiamo notato tutt* la pesantezza del “clima”, la tensione che si respira nel cercare “ruoli”, “spazi”, “visibilità”… boh!!! Dovremo anzitutto richiamare le/gli assent* e farl* esprimere. Per capire come ricomporre e ricostruire quella partecipazione entusiasta, indispensabile per dare risposta condivisa agli obiettivi che ci siamo posti: l'autogestione e la comunicazione.

Qualche idea: *Lo stato della radio nel contesto romano e del movimento. Una radio come Ror è una radio di movimento, dunque non può non rispecchiare di questo le alterne vicende, gli alti e bassi. La frantumazione o, se vogliamo, la diversità si sente ascoltando Ror. Le diversità esistenti sono talmente tante che non si può dire che siamo UNA radio… Ma questo non è un fatto scandaloso purché si trovi lo spazio e la volontà di discussione. Non si tratta solo di differenti valutazioni politiche su alcuni avvenimenti, o sul rapporto con ma anche del modo stesso di concepire una radio. C’è chi privilegia la cronaca, chi invece dà più spazio alle valutazioni critiche; chi privilegia l’intervista; chi gli aspetti locali, chi quelli internazionali; chi le vicende del movimento, perfino chi privilegia l’intrattenimento. *mi pare che in questa fase gli spazi fissi, sempre dell* stess* compagn* e dello stesso argomento, sia diventato un fatto negativo. Favorisce la segmentazione della radio e dell’ascolto. Forse introdurre rotazione negli spazi orari…può essere un tentativo interessante

Discutere come fare radio oggi rimanda obbligatoriamente a dare uno sguardo alla fase che attraversiamo. FUNZIONE e RUOLO di ROR IN QUESTA FASE?

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E ALLORA CERCHIAMO DI METTER IL NASO IN QUESTA FASE… Siamo sicuramente in una fase di transizione. Non sappiamo verso dove, ma sappiamo cosa ci lasciamo alle spalle: 30-40 anni di liberismo che hanno seminato sfaceli sociali e devastazioni ambientali. Affermare che il capitalismo in questa fase troverà la sua fine, è previsione che non ci sentiamo di fare (quante ne abbiamo sentite di idee consolatorie del capitalismo che troverà “da solo” il suo limite; che “da solo” ci libererà della sua fastidiosa presenza; che ci consegnerà su un piatto d’argento il socialismo bello e pronto…tutte smentite!). Possiamo però sostenere decisamente che quel modello di sviluppo capitalistico definito “liberismo” (quello in voga nei 3, 4 decenni precedenti non funziona più! Ed è un fatto riconosciuto dalla gran parte degli analisti (seri). Una fine che non sarà indolore né rapida, e lascerà una ulteriore scia di sconquassi sociali e ambientali. Dunque transizione e come in tutte le fasi di transizione, in ambito capitalistico, verranno incrementati i livelli di sfruttamento del lavoro, quindi maggiore flessibilità, precarietà e aumento della disoccupazione. Periodi di “turbolenze”. Le turbolenze economiche e finanziarie le stiamo subendo, quelle politiche, istituzionali stanno arrivando; quelle sociali ci interessano di più. Conflitti, rivolte, sommosse,… e ne stiamo vedendo parecchie. Conflitti difficili da analizzare, ancor più difficile individuarne i percorsi successivi, le prospettive. Ma siamo in una fase di transizione! Questo è sicuro! E allora….

PRIMO SUGGERIMENTO:

perché non fare intanto un bel lavoro!!!! Un lavoro politico e culturale che risponda a questa domanda: COSA CI HANNO LASCIATO QUESTI DECENNI DI “LIBERISMO” ? Quali MACERIE? (la Reaganomics decollata con l’elezione di Reagan alla casa Bianca, le politiche dell’offerta, la riduzione dei salari, l’aumento delle spese militari, l’abbattimento dello stato sociale, la riduzione delle tasse per i redditi alti, la riduzione dei tassi di interesse, le facilitazioni per le banche e le finanziarie, ecc. MONTAGNE DI MACERIE che possiamo analizzare settore per settore, una per una.

*dal punto di vista economico-sociale.:aumentati di moltissimo i differenziali tra ceti abbienti e ceti poveri all’interno di ciascuna società, emarginazione e criminalizzazione della povertà. Aumentati moltissimo i differenziali tra paesi ricchi e paesi poveri, alcuni ridotti alla fame, carestie e devastazioni (Corno d’Africa e non solo), ripresa in grande stile del colonialismo (non era mai cessato, ma ora è in crescita e più esplicito, il caso della Costa D’Avorio e altre), migrazioni massicce dovute a fame e guerre cui si risponde con politiche di respingimento militare e di reclusione (Cie). *Galera! La carcerazione nel mondo si è triplicata in tutte le sue forme: le carceri, classicamente intese hanno visto moltiplicare le presenze, nascita dei centri di espulsione, lager di contenimento, emarginazione, manicomi e controllo psichiatrico si moltiplicano. *Sfruttamento! Oltre lo sfruttamento classico è ricomparso alla grande il “lavoro nero” e tutte le altre forme di supersfruttamento; la giornata lavorativa si è allungata invertendo una tendenza alla riduzione che durava da 150 anni). *Scomparsa definitiva delle strutture del movimento operaio classico: sindacato e partiti socialdemocratici o riformisti (pci passato a pds, poi ds, poi pd) i sindacati diventati ancor più collaborativi. *Non decollo sufficiente delle strutture di base e dei sindacati di base, che non hanno ribaltato a loro favore la crisi dei sindacati collaborativi. Ripresa degli organismi di base? Loro Rilancio? Difficoltà di organizzazione alla base. Esperimenti, casi riusciti, da cui trarre insegnamenti. …. Ma possiamo spaziare anche ai settori propriamente “culturali”: ne abbiamo la capacità e le competenze e sarebbe MOLTO interessante. Rispondere alla domanda: che tipo di musica ci hanno regalato questi decenni di liberismo? Penso a Fefo e Elettrodo che sarebbero capacissimi di analizzare criticamente il legame musica-offensiva reazionaria (ma sono capac* anche tutt* le/gli altr* Dj della radio) E poi ancora: Che cinema e teatro ci hanno regalato questi decenni? Che letteratura? Che strutture urbane? Che Spazi sociali? Che Quartieri? Che Cementificazione? Che Riduzione degli spazi pubblici? Ecc, ecc….

SECONDO SUGGERIMENTO

Abbiamo detto che una fase di transizione è attraversata da conflitti. Eppure la gravità della crisi attuale e la sua lunga durata, avrebbe fatto pensare a esplosioni sociali di gran lunga maggiori e più robuste di quelle che stiamo vedendo. E anche questo è un dato su cui riflettere. Quali sono le capacità di controllo dei sistemi di potere e degli Stati attuali? I conflitti in corso di che segno saranno? A parte la splendida e gagliarda lotta No Tav che ci entusiasma e che però fa vedere la determinazione militaresca del governo e dello Stato e la piatta sudditanza della stampa alle volontà del potere. Abbiamo visto le rivolte in nord-Africa, quelle in Grecia, in Spagna, in Gb. Ciascuna diversa dalle altre. Tutte di difficile interpretazione, sia dal punto di vista della composizione sociale (di classe), sia dal punto di vista della consapevolezza politica (ossia il rapporto dei rivoltosi con lo “stato di cose presenti”, con le istituzioni esistenti. E anche dal punto di vista degli obiettivi: se per chiedere qualcosa, oppure per riformarle, o per abbatterle)

Alcuni analisti affermano che data lo situazione devastante di questa “lunga crisi”, e l’assenza di un movimento operaio organizzato in grado di organizzare la resistenza, i movimenti in questa TRANSIZIONE potranno essere anche preda delle destre! (non necessariamente destre radicali, ma destre economiche, ad esempio destre “stataliste”) Chissà! È un nostro dovere seguire con attenzione lo sviluppo di questi conflitti cercando non solo di dar loro voce ma di sforzarci di comprenderli e analizzarli attentamente.

Dunque se ci aspettiamo conflitti dovremo seguirli attentamente. Certo! Ma come seguirli? Dando loro voce, questo è ovvio, ma anche cercando di fornire un pensiero/ragionamento critico ai/alle compagne che ascoltano per dare loro strumenti critici per operare da soggetti attivi dentro questi movimenti, e in ogni settore sociale in cui si trovano. Quindi non solo informazione e “voce a chi non ha voce”. Anche perché oggi siamo sottoposti a un flusso continuo di informazioni, di immagini e di suoni, una foresta in cui non riusciamo a selezionare quelle cose che ci riguardano, quelle sulle quali ci dovremo concentrare per esprimere la nostra volontà, il nostro parere. Per commisurare la “notizia” con i nostri bisogni e con la nostra volontà cambiare la realtà. Siamo talmente inondati da “notizie” ! Il lavoro da fare è selezionar questa “massa” di “informazioni” e sottoporle a giudizio critico. Un lavoro che ha un senso solo se è condiviso da chi sta al di qua dei microfoni, se tutti/e hanno avuto la possibilità di discutere, capire e criticare l’ “informazione”. Elaborare un pensiero critico comune su eventi che ci interessano, non vuol dire intrupparci in una unica visione del mondo. Al contrario vuol dire costruire una base critica comune in modo che ciascun* ne possa trarre le conclusioni che crede, ma consapevolmente.

Un dato che non possiamo sottovalutare nel seguire, conoscere e valutare ogni movimento è il loro rapporto con le ISTITUZIONI, con lo STATO. Detto in due parole: è ovvio che dopo i disastri del liberismo e l’esaltazione del mercato, molti siano propensi a richiedere “politiche statali” in economia, aumento del controllo statale visto il dilagare della corruzione e della “immoralità”, illudendosi che lo Stato possa essere una controtendenza dello “strapotere” del capitalismo sfrenato e senza controllo. Ovviamente sono farneticazioni di chi non ha nessuna idea del ruolo dello Stato (né storico, né attuale) nella società capitalistica, eppure è molto diffuso. (Basterebbe un dato per smentire il “cretinismo statalista”: le rimesse degli Stati alle imprese è stato maggiore negli ultimi due decenni che negli anni 60 in epoca di intervento statale in economia. Ma questo la gente fa finta di non saperlo). Su questo terreno una destra statalista e giustizialista, normalizzata potrebbe cavalcare i movimenti nascenti.

(Cfr.: http://ita.anarchopedia.org/La_Comune_di_Parigi_(1871) )

(Cfr.: Anarchopedia, cit.).

A partire dal 25 ottobre 1956, sostiene Lefort, “i consigli si diffondono in Ungheria, il loro potere diventa il solo potere reale, insieme a quello dell'armata rossa”. L'adozione del mandato imperativo - che tutte le Costituzioni repubblicane francesi hanno considerato nullo e di cui nessuna grande formazione politica accetta il principio, neanche per il suo funzionamento interno - costituisce uno dei pilastri della teoria dei consigli e prevede anche la revocabilità permanente di qualsiasi delegato; mentre il mandato rappresentativo concede una totale indipendenza a colui che, una volta eletto, diventa una voce della nazione. Il 28 ottobre, il consiglio di Szeged proclama l’autogestione operaia, seguito da altri consigli o comitati di fabbrica. Per Castoriadis, la rivoluzione ungherese combatte gli stessi rapporti di produzione capitalista mantenuti dal regime socialista e non si accontenta dell'abolizione del regime di proprietà privata. Secondo Lefort, il regime staliniano aveva permesso agli operai ungheresi di arrivare a un'importante consapevolezza: “Lo sfruttamento non deriva dalla presenza di capitalisti privati, ma, più in generale, dalla divisione all'interno delle fabbriche tra coloro che decidono tutto e coloro che possono solo obbedire”. La statalizzazione dei mezzi di produzione - o la loro nazionalizzazione - non potrebbe in nessun caso conferire un carattere socialista alla produzione. Un simile errore aveva portato a coprire la realtà di un sistema di inaudito sfruttamento che nel 1956 gli ungheresi tentarono di fare a pezzi [n.b.: solo l’intervento armato del Patto di Varsavia, deciso da Mosca, riuscì a stroncare la rivoluzione operaia]. (Cfr.: T. Feixa, “Socialisme ou Barbarie e la rivoluzione ungherese”, Le Monde Diplomatique, ott. 2006)

(Cfr.: S. Halimi, “Ultime notizie dall'Utopia”, Le Monde Diplomatique, set. 2006).

Riconvertito in amministratore delegato della Srl Tower Colliery, Tyrone O’ Sullivan, ex segretario del locale sindacato dei minatori; da quattro anni attua con successo una co-gestione con i suoi compagni, diventati azionisti della miniera. “Noi dimostriamo al mondo intero che gli operai sono capaci di gestirsi i propri affari e che il socialismo può funzionare”, ci spiega l'ex minatore, elettricista di formazione, che ha visto il padre e il nonno morire in miniera. I profitti vengono reinvestiti per migliorare le condizioni di lavoro e sviluppare la miniera. E la miniera, in effetti, dà profitti. Contrariamente a tutte le previsioni dei conservatori sulla sua non-redditività, i quattrocento minatori-azionisti di Tower Colliery dimostrano che il carbone, pur non sovvenzionato e venduto ai prezzi del mercato mondiale, resta competitivo. “Ne esportiamo anche il 30 % in Francia, Belgio e Irlanda”, ci dice O’ Sullivan, prima di raccontarci come instancabilmente fa da quattro anni la storia del riacquisto della miniera da parte dei minatori licenziati.

In poco tempo, la Tower Colliery Srl realizzava un utile di 90.000 sterline, contraddicendo tutti gli studi che prevedevano la non-redditività della miniera. Perché l'antracite, in effetti, si vende bene: da subito sono cominciate a fioccare le ordinazioni. Nei primi tre anni i profitti hanno raggiunto il 20% del fatturato. E la produzione è passata dalle 440.000 tonnellate del 1995 alle 600.000 del 1998. Quanto ai 239 lavoratori iniziali, oggi sono più di 400. In questa impresa atipica si può lavorare solo dopo aver acquistato una partecipazione azionaria di 8.000 sterline. Ma, in questa regione povera, con un tasso di disoccupazione che supera il 20%, sono in pochi a disporre di una tale somma, e chi vuole partecipare deve spesso chiedere un prestito alle banche. Per limitare i rischi di speculazione e di influenza esterna, il “collettivo di riacquisto” ha deciso che le azioni potevano essere vendute solo ai lavoratori della miniera. Chi va in pensione può conservare le sue quote, ma perde il diritto di voto nelle quattro assemblee annuali degli azionisti che, tra l'altro, nominano i sei direttori. Ma questa Srl costituita da lavoratori-azionisti non avvalora l'idea di capitalismo popolare, cara a Margaret Thatcher? O'Sullivan respinge l'obiezione. “Noi dimostriamo solo che i lavoratori sanno gestire una miniera meglio di quanto facesse la vecchia impresa nazionale e di quanto facciano i moderni capitalisti. La nostra esperienza dovrebbe fare scuola”.

(Cfr.: B. Pètzold “La rivincita dei minatori a Tower Colliery”, Le Monde Diplomatique, lug. 1999)