CONTRIBUTO DI SALVO:

Compagne e compagni di Ror, Dalle riunioni di redazione della radio, prima della chiusura estiva, si legge nelle mail che ci si appresta per i primi di settembre a organizzare riunioni su temi complessi come “comunicazione attraverso il mezzo radio” e l' “autogestione”. Temi impegnativi che, proprio per questa loro prerogativa, dovrebbero essere affrontati e discussi con passione e consapevolezza dalla gran parte (più o meno tutt*) di coloro che partecipano al progetto Ror. Forse è utile, prima di imbarcarsi in questo lavoro dare uno sguardo alla realtà, per primo alla nostra realtà. Negli ultimi mesi (diciamo dall'inizio dell'anno o giù di lì), la riunione del lunedì, che esprime la “riunione di redazione” si è via via svuotata di partecipanti, in particolare sono andate via gran parte delle compagne e dei/delle giovanissimi/e. È un fatto preoccupante, anche perché lo scorso anno questa presenza era molto numerosa, ma recentemente è diminuita moltissimo. Non possiamo trascurarlo e passare oltre. Dobbiamo riflettere a fondo e chiederci il perché. La redazione di Ror non è più accogliente? Penso che abbiamo notato tutt* la pesantezza del “clima”, la tensione che si respira nel cercare “ruoli”, “spazi”, “visibilità”… boh!!! Dovremo anzitutto richiamare le/gli assent* e farl* esprimere. Per capire come ricomporre e ricostruire quella partecipazione entusiasta, indispensabile per dare risposta condivisa agli obiettivi che ci siamo posti: l'autogestione e la comunicazione.

Qualche idea: *Lo stato della radio nel contesto romano e del movimento. Una radio come Ror è una radio di movimento, dunque non può non rispecchiare di questo le alterne vicende, gli alti e bassi. La frantumazione o, se vogliamo, la diversità si sente ascoltando Ror. Le diversità esistenti sono talmente tante che non si può dire che siamo UNA radio… Ma questo non è un fatto scandaloso purché si trovi lo spazio e la volontà di discussione. Non si tratta solo di differenti valutazioni politiche su alcuni avvenimenti, o sul rapporto con ma anche del modo stesso di concepire una radio. C’è chi privilegia la cronaca, chi invece dà più spazio alle valutazioni critiche; chi privilegia l’intervista; chi gli aspetti locali, chi quelli internazionali; chi le vicende del movimento, perfino chi privilegia l’intrattenimento. *mi pare che in questa fase gli spazi fissi, sempre dell* stess* compagn* e dello stesso argomento, sia diventato un fatto negativo. Favorisce la segmentazione della radio e dell’ascolto. Forse introdurre rotazione negli spazi orari…può essere un tentativo interessante

Discutere come fare radio oggi rimanda obbligatoriamente a dare uno sguardo alla fase che attraversiamo. FUNZIONE e RUOLO di ROR IN QUESTA FASE?

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E ALLORA CERCHIAMO DI METTER IL NASO IN QUESTA FASE… Siamo sicuramente in una fase di transizione. Non sappiamo verso dove, ma sappiamo cosa ci lasciamo alle spalle: 30-40 anni di liberismo che hanno seminato sfaceli sociali e devastazioni ambientali. Affermare che il capitalismo in questa fase troverà la sua fine, è previsione che non ci sentiamo di fare (quante ne abbiamo sentite di idee consolatorie del capitalismo che troverà “da solo” il suo limite; che “da solo” ci libererà della sua fastidiosa presenza; che ci consegnerà su un piatto d’argento il socialismo bello e pronto…tutte smentite!). Possiamo però sostenere decisamente che quel modello di sviluppo capitalistico definito “liberismo” (quello in voga nei 3, 4 decenni precedenti non funziona più! Ed è un fatto riconosciuto dalla gran parte degli analisti (seri). Una fine che non sarà indolore né rapida, e lascerà una ulteriore scia di sconquassi sociali e ambientali. Dunque transizione e come in tutte le fasi di transizione, in ambito capitalistico, verranno incrementati i livelli di sfruttamento del lavoro, quindi maggiore flessibilità, precarietà e aumento della disoccupazione. Periodi di “turbolenze”. Le turbolenze economiche e finanziarie le stiamo subendo, quelle politiche, istituzionali stanno arrivando; quelle sociali ci interessano di più. Conflitti, rivolte, sommosse,… e ne stiamo vedendo parecchie. Conflitti difficili da analizzare, ancor più difficile individuarne i percorsi successivi, le prospettive. Ma siamo in una fase di transizione! Questo è sicuro! E allora….

PRIMO SUGGERIMENTO:

perché non fare intanto un bel lavoro!!!! Un lavoro politico e culturale che risponda a questa domanda: COSA CI HANNO LASCIATO QUESTI DECENNI DI “LIBERISMO” ? Quali MACERIE? (la Reaganomics decollata con l’elezione di Reagan alla casa Bianca, le politiche dell’offerta, la riduzione dei salari, l’aumento delle spese militari, l’abbattimento dello stato sociale, la riduzione delle tasse per i redditi alti, la riduzione dei tassi di interesse, le facilitazioni per le banche e le finanziarie, ecc. MONTAGNE DI MACERIE che possiamo analizzare settore per settore, una per una.

*dal punto di vista economico-sociale.:aumentati di moltissimo i differenziali tra ceti abbienti e ceti poveri all’interno di ciascuna società, emarginazione e criminalizzazione della povertà. Aumentati moltissimo i differenziali tra paesi ricchi e paesi poveri, alcuni ridotti alla fame, carestie e devastazioni (Corno d’Africa e non solo), ripresa in grande stile del colonialismo (non era mai cessato, ma ora è in crescita e più esplicito, il caso della Costa D’Avorio e altre), migrazioni massicce dovute a fame e guerre cui si risponde con politiche di respingimento militare e di reclusione (Cie). *Galera! La carcerazione nel mondo si è triplicata in tutte le sue forme: le carceri, classicamente intese hanno visto moltiplicare le presenze, nascita dei centri di espulsione, lager di contenimento, emarginazione, manicomi e controllo psichiatrico si moltiplicano. *Sfruttamento! Oltre lo sfruttamento classico è ricomparso alla grande il “lavoro nero” e tutte le altre forme di supersfruttamento; la giornata lavorativa si è allungata invertendo una tendenza alla riduzione che durava da 150 anni). *Scomparsa definitiva delle strutture del movimento operaio classico: sindacato e partiti socialdemocratici o riformisti (pci passato a pds, poi ds, poi pd) i sindacati diventati ancor più collaborativi. *Non decollo sufficiente delle strutture di base e dei sindacati di base, che non hanno ribaltato a loro favore la crisi dei sindacati collaborativi. Ripresa degli organismi di base? Loro Rilancio? Difficoltà di organizzazione alla base. Esperimenti, casi riusciti, da cui trarre insegnamenti. …. Ma possiamo spaziare anche ai settori propriamente “culturali”: ne abbiamo la capacità e le competenze e sarebbe MOLTO interessante. Rispondere alla domanda: che tipo di musica ci hanno regalato questi decenni di liberismo? Penso a Fefo e Elettrodo che sarebbero capacissimi di analizzare criticamente il legame musica-offensiva reazionaria (ma sono capac* anche tutt* le/gli altr* Dj della radio) E poi ancora: Che cinema e teatro ci hanno regalato questi decenni? Che letteratura? Che strutture urbane? Che Spazi sociali? Che Quartieri? Che Cementificazione? Che Riduzione degli spazi pubblici? Ecc, ecc….

SECONDO SUGGERIMENTO

Abbiamo detto che una fase di transizione è attraversata da conflitti. Eppure la gravità della crisi attuale e la sua lunga durata, avrebbe fatto pensare a esplosioni sociali di gran lunga maggiori e più robuste di quelle che stiamo vedendo. E anche questo è un dato su cui riflettere. Quali sono le capacità di controllo dei sistemi di potere e degli Stati attuali? I conflitti in corso di che segno saranno? A parte la splendida e gagliarda lotta No Tav che ci entusiasma e che però fa vedere la determinazione militaresca del governo e dello Stato e la piatta sudditanza della stampa alle volontà del potere. Abbiamo visto le rivolte in nord-Africa, quelle in Grecia, in Spagna, in Gb. Ciascuna diversa dalle altre. Tutte di difficile interpretazione, sia dal punto di vista della composizione sociale (di classe), sia dal punto di vista della consapevolezza politica (ossia il rapporto dei rivoltosi con lo “stato di cose presenti”, con le istituzioni esistenti. E anche dal punto di vista degli obiettivi: se per chiedere qualcosa, oppure per riformarle, o per abbatterle)

Alcuni analisti affermano che data lo situazione devastante di questa “lunga crisi”, e l’assenza di un movimento operaio organizzato in grado di organizzare la resistenza, i movimenti in questa TRANSIZIONE potranno essere anche preda delle destre! (non necessariamente destre radicali, ma destre economiche, ad esempio destre “stataliste”) Chissà! È un nostro dovere seguire con attenzione lo sviluppo di questi conflitti cercando non solo di dar loro voce ma di sforzarci di comprenderli e analizzarli attentamente.

Dunque se ci aspettiamo conflitti dovremo seguirli attentamente. Certo! Ma come seguirli? Dando loro voce, questo è ovvio, ma anche cercando di fornire un pensiero/ragionamento critico ai/alle compagne che ascoltano per dare loro strumenti critici per operare da soggetti attivi dentro questi movimenti, e in ogni settore sociale in cui si trovano. Quindi non solo informazione e “voce a chi non ha voce”. Anche perché oggi siamo sottoposti a un flusso continuo di informazioni, di immagini e di suoni, una foresta in cui non riusciamo a selezionare quelle cose che ci riguardano, quelle sulle quali ci dovremo concentrare per esprimere la nostra volontà, il nostro parere. Per commisurare la “notizia” con i nostri bisogni e con la nostra volontà cambiare la realtà. Siamo talmente inondati da “notizie” ! Il lavoro da fare è selezionar questa “massa” di “informazioni” e sottoporle a giudizio critico. Un lavoro che ha un senso solo se è condiviso da chi sta al di qua dei microfoni, se tutti/e hanno avuto la possibilità di discutere, capire e criticare l’ “informazione”. Elaborare un pensiero critico comune su eventi che ci interessano, non vuol dire intrupparci in una unica visione del mondo. Al contrario vuol dire costruire una base critica comune in modo che ciascun* ne possa trarre le conclusioni che crede, ma consapevolmente.

Un dato che non possiamo sottovalutare nel seguire, conoscere e valutare ogni movimento è il loro rapporto con le ISTITUZIONI, con lo STATO. Detto in due parole: è ovvio che dopo i disastri del liberismo e l’esaltazione del mercato, molti siano propensi a richiedere “politiche statali” in economia, aumento del controllo statale visto il dilagare della corruzione e della “immoralità”, illudendosi che lo Stato possa essere una controtendenza dello “strapotere” del capitalismo sfrenato e senza controllo. Ovviamente sono farneticazioni di chi non ha nessuna idea del ruolo dello Stato (né storico, né attuale) nella società capitalistica, eppure è molto diffuso. (Basterebbe un dato per smentire il “cretinismo statalista”: le rimesse degli Stati alle imprese è stato maggiore negli ultimi due decenni che negli anni 60 in epoca di intervento statale in economia. Ma questo la gente fa finta di non saperlo). Su questo terreno una destra statalista e giustizialista, normalizzata potrebbe cavalcare i movimenti nascenti.

L'autogestione di uno strumento di comunicazione e informazione antagonista, di una radio politica come Onda Rossa, è una scelta fondante e irrinunciabile. Ed è una sfida piena di difficoltà ma anche di grande e intensa partecipazione materiale, intellettuale ed emotiva, che continua ininterrottamente da oltre 34 anni. Se diamo uno sguardo all’esterno, notiamo che nel sistema di produzione capitalista, gli organi di informazione si strutturano in funzione del prodotto da vendere sul “mercato” (tutt’altro che libero e accessibile a tutti): la merce-informazione; ovvero, specialmente per le televisioni, quell’ibrido che prende il nome di informazione/intrattenimento. Conseguentemente, l’organizzazione verticistica (editore, direttore, ecc.), la divisione del lavoro, le differenze salariali, i condizionamenti di inserzionisti, padronato, politici e apparati statali, sono caratteristiche fondanti e costanti. In questo contesto, già la semplice esistenza, vitalità e lunga durata di una radio come Onda Rossa, costituisce qualcosa di eccezionale: precisamente per il fatto che si autorganizza attraverso i principi e la pratica dell’autogestione. Una smentita quotidiana e clamorosa delle regole del sistema: nessun finanziamento da padroni, padrini, stato, enti, sindacati, partiti, pubblicità; nessun capo, direttore, editore; nessun salariato o rimborsato. Come unico organo e sede decisionale di ogni cosa (dal palinsesto settimanale alle valutazioni politiche, dalla decisioni di spesa ai turni di pulizia, ecc.), questa radio ha avuto e ha l’assemblea di redazione, aperta alla partecipazione di chiunque condivida il progetto comunicativo di R.O.R. e, appunto, la modalità dell’autogestione. Una partecipazione determinata solo dalla libera e consapevole scelta di svolgere un lavoro politico, sociale, culturale, in una radio dove tutt* lavorano gratuitamente, per il tempo e con le energie che possono e vogliono mettere a disposizione di questo impegno collettivo. Dimostrando la capacità di produrre talvolta – pur non essendo “giornalisti” e rifiutando di diventarlo – trasmissioni ben fatte e di buona ascoltabilità, oltre a fare quasi sempre un tipo di comunicazione in sintonia con i movimenti e le lotte antagoniste in Italia e nel mondo. Uno dei più grandi meriti delle centinaia di compagn* che hanno complessivamente lavorato attivamente e generosamente nella redazione della radio per brevi o lunghi periodi – a fronte delle migliaia, compagn* e non, che hanno trasmisso dai suoi microfoni per oltre tre decenni – è stato quello di essere riusciti a mantenere e rinnovare l’autogestione di questo strumento di lotta (comunista, libertario, di classe, di movimento… scegliete voi l’aggettivo che preferite), nonostante problemi interni ed esterni, limiti e difetti che senz’altro ci sono e ci sono stati. Un’altra caratteristica fondamentale di R.O.R. è, per statuto, la sua “proprietà” collettiva, indivisibile e inalienabile (cioè, non vendibile: pensate che una frequenza radiofonica, a Roma, ha oggi un valore di mercato di varie centinaia di migliaia di euro), gestita da un collettivo redazionale che, pur mutando la composizione nel tempo, ha sempre rispettato e rinnovato l’impegno originario stabilito nel 1977; e lo abbia fatto, non casualmente, attraverso l’autogestione. Quanto ai costi per far funzionare la radio, l’autofinanziamento è stata e continua a essere la scelta adottata, attraverso: sottoscrizioni singole e collettive dalle/dagli ascoltatrici/ori, iniziative musicali e culturali, vendita di produzioni editoriali e di merchandising, partecipazione a progetti nazionali e internazionali nel campo delle comunicazione/informazione che non limitino in alcun modo l’autonomia della radio nella scelta di contenuti e modalità di realizzazione. Credo che queste brevi note evidenzino a sufficienza il grande valore politico e anche umano dell’autogestione: qualcosa che prefigura e sperimenta, qui e ora, i nuovi rapporti di produzione e personali nel mondo libero dal capitalismo e dal lavoro salariato per il quale lottiamo. Nella consapevolezza che l’autogestione non si dà naturalmente e automaticamente: richiede scelte chiare, determinazione e impegno costante, trasmesso da una generazione all’altra, inventando spesso nuove forme, per non sclerotizzarsi e rinnovare motivazioni ed entusiasmo.

Aggiungo qui di seguito alcune note di tipo essenzialmente storico sull’autogestione, che ci aiutano a collocare l’esperienza di Radio Onda Rossa – facendo le dovute proporzioni – nel percorso di liberazione e di lotta dell’umanità per cambiare radicalmente “lo stato di cose presenti”. Sono solo alcuni spunti, molto parziali, per chi avesse tempo e voglia di approfondire.

Per darne una definizione, in generale si può dire che l'autogestione richiede “la cooperazione e la creatività dei singoli individui, consenso e democrazia diretta” (Anarchopedia, <http://ita.anarchopedia.org/autogestione>). Come modalità di gestione di un'attività produttiva o comunque lavorativa, essa prevede che “ogni individualità partecipa associativamente, e in egual misura, alla gestione – il lavoro è collettivo e anche la proprietà – e non si deve confondere con la co-gestione, in cui il proprietario gestisce l’organismo avvalendosi del contributo dei lavoratori a cui spetta una parte del profitto (Anarcopedia, cit.).

FRANCIA - Il primo esempio di tipo politico, autenticamente rivoluzionario, fu la Comune di Parigi (1871), di enorme importanza ma purtroppo di brevissima durata. La Comune riservò sin dal suo principio grande importanza all’individualità: libertà d’espressione, di coscienza, di lavoro e d’intervento nelle decisioni comunali. L’aspetto caratterizzante quest'esperienza fu la rivolta contro il potere centralizzato e la distruzione dello Stato politico quale centro di controllo autoritario. La Comune doveva anche, dinanzi alle esigenze militari, conservare il suo carattere democratico e seguitare a basarsi sulle piccole comunità locali di cui Parigi era composta. Non fu un'esperienza prettamente anarchica (per l’improvvisazione con cui si costituì, per le diverse anime che furono presenti ecc.) ma, indubbiamente, ebbe un carattere libertario. Simbolo della Comune diviene la bandiera rossa, definita “la bandiera della repubblica universale” e si stabilisce che anche i non-francesi hanno pieno diritto di cittadinanza nella Comune. I primi provvedimenti di urgenza furono: libertà di stampa, scarcerazione immediata di tutti i detenuti politici, abolizione dei Consigli di guerra (i tribunali militari), proroga di un mese le scadenze dei pagamenti, divieto di sfratto. Il 23 marzo 1871 i membri parigini dell'Internazionale enunciavano in un manifesto le riforme sociali da attuare: “L'organizzazione del credito, dello scambio e della società, al fine di assicurare al lavoratore il valore integrale del suo lavoro. L'istruzione gratuita, laica e integrale. Il diritto di riunione e di associazione, libertà assoluta di stampa e del cittadino. L'organizzazione per ogni municipio di un servizio di polizia, di forze armate, di strutture igieniche, di dati statistici”. La base dell'attività politica dei parigini che danno il loro appoggio più attivo alla Comune si concentra nei clubs, nati alla caduta dell'Impero soprattutto nelle periferie della città. Le donne di Parigi cominciano a svolgere un'attività importante già all'inizio della guerra con la Prussia, quando molti uomini sono impegnati al fronte e si creano i comitati di quartiere e i clubs. Altre decisioni della Comune furono la proibizione della prostituzione, l'organizzazione degli asili, l'abolizione della distinzione tra figli legittimi e illegittimi, la concessione di un'indennità alle mogli delle guardie nazionali. Le comunarde rivendicavano la piena uguaglianza dei sessi: “Qualsiasi diseguaglianza e qualsiasi antagonismo tra i sessi costituisce una delle basi del potere delle classi dominanti [...] Uguaglianza dei salari, diritto al divorzio per le donne, diritto all'istruzione laica ed alla formazione professionale per le ragazze”. (Cfr.: http://ita.anarchopedia.org/La_Comune_di_Parigi_(1871) )

RUSSIA - Nel 1917 nacque la "Repubblica di Kronstadt", di orientamento anticentralista e federalista, che nel 1921 accentuò le caratteristiche libertarie, scontrandosi per questo con il potere bolscevico. La sua assemblea popolare – l’organo sovrano – abolì ogni sorta di privilegio, a cominciare dalla proprietà privata, dei beni fondiari e degli immobili: gli appartamenti furono ridistribuiti tra i cittadini bisognosi. Inoltre, furono proclamate e attuate “Libertà di parola e di stampa per tutti i partiti rivoluzionari; libertà sindacale; liberazione dei prigionieri politici rivoluzionari; abolizione della propaganda ufficiale; cessazione delle requisizioni nelle campagne; libertà dell’artigianato”. Il 7 marzo 1921 l’Armata Rossa, guidata Trotskij, iniziò i suoi primi attacchi contro Kronstadt, (in tutto circa 60.000 uomini). Ci vollero dodici giorni di durissimi scontri per permettere alle truppe di Mosca di far capitolare la cittadella rivoluzionaria. (Cfr.: Anarchopedia, cit.).

UNGHERIA - Alla rivolta operaia del 1956, una rivista comunista francese, Socialismo o Barbarie. Organo critico d'orientamento rivoluzionario, fondata nel 1949 da due dissidenti trotzkisti, Claude Lefort e Cornelius Castoriadis, dedicò tre approfondimenti, a partire dal dicembre 1956. La rivoluzione dei consigli operai che prende forma a Budapest, Györ, Miskolc, Pécs, è al tempo stesso radicale ed egualitaria; secondo Lefort, la prima “rivoluzione antitotalitaria”. L'insurrezione ungherese agisce spontaneamente. Pratica una lotta radicale, attraverso lo sciopero generale e la creazione dei consigli autonomi, creati sulla base della democrazia diretta, negando la forma del partito rivoluzionario, leninista e trotzkista, inteso come organizzazione autoritaria e centralizzatrice che riserva a un'elite ristretta tutte le decisioni. Il potere monolitico del partito-stato si sgretola in pochi giorni. Nell'insurrezione ungherese emerge l'autonomia dei movimenti rivoluzionari, accogliendo l'idea di Karl Marx della autoemancipazione del proletariato: la «coscienza socialista», come prodotto di un'esperienza collettiva di lotta per il rovesciamento dell'ordine stabilito. A partire dal 25 ottobre 1956, sostiene Lefort, “i consigli si diffondono in Ungheria, il loro potere diventa il solo potere reale, insieme a quello dell'armata rossa”. L'adozione del mandato imperativo - che tutte le Costituzioni repubblicane francesi hanno considerato nullo e di cui nessuna grande formazione politica accetta il principio, neanche per il suo funzionamento interno - costituisce uno dei pilastri della teoria dei consigli e prevede anche la revocabilità permanente di qualsiasi delegato; mentre il mandato rappresentativo concede una totale indipendenza a colui che, una volta eletto, diventa una voce della nazione. Il 28 ottobre, il consiglio di Szeged proclama l’autogestione operaia, seguito da altri consigli o comitati di fabbrica. Per Castoriadis, la rivoluzione ungherese combatte gli stessi rapporti di produzione capitalista mantenuti dal regime socialista e non si accontenta dell'abolizione del regime di proprietà privata. Secondo Lefort, il regime staliniano aveva permesso agli operai ungheresi di arrivare a un'importante consapevolezza: “Lo sfruttamento non deriva dalla presenza di capitalisti privati, ma, più in generale, dalla divisione all'interno delle fabbriche tra coloro che decidono tutto e coloro che possono solo obbedire”. La statalizzazione dei mezzi di produzione - o la loro nazionalizzazione - non potrebbe in nessun caso conferire un carattere socialista alla produzione. Un simile errore aveva portato a coprire la realtà di un sistema di inaudito sfruttamento che nel 1956 gli ungheresi tentarono di fare a pezzi [n.b.: solo l’intervento armato del Patto di Varsavia, deciso da Mosca, riuscì a stroncare la rivoluzione operaia]. (Cfr.: T. Feixa, “Socialisme ou Barbarie e la rivoluzione ungherese”, Le Monde Diplomatique, ott. 2006)

Tra le numerose esperienze di lavoratori autorganizzati per gestire la produzione, ecco qualche esempio.

ARGENTINA - Dopo il crollo economico e politico del 2001-02, si sviluppò un movimento di recupero di centottanta fabbriche abbandonate dai proprietari, di cooperative, forme di baratto, sistemi di scambi locali (Sel), di autogestione, di assemblee di quartiere. Queste strutture autogestite hanno già costituito "una rete internazionale di solidarietà che unisce trecento imprese recuperate in Argentina, Venezuela, Brasile e Uruguay". Le autorità politiche argentine non hanno affatto incoraggiato il recupero delle fabbriche abbandonate; ma non hanno nemmeno mandato le forze dell'ordine contro la maggior parte delle cooperative, alle quali hanno talvolta dato un aiuto finanziario. Però il movimento non si estende e si deve riconoscere lo scarso impatto dell’autogestione sul modo di produzione dominante. (Cfr.: S. Halimi, "Ultime notizie dall'Utopia", Le Monde Diplomatique, set. 2006).

SPAGNA - Nel 1981, il proprietario di un’azienda metallurgica di Barcellona scompariva senza pagare i salari. Una trentina di operai si organizzarono e rimisero in moto le macchine e, utilizzando lo stock di materie prime, chiesero e ottennero dai grandi costruttori di automobili di essere pagati direttamente, sequestrando anche il figlio del padrone, venuto in fabbrica, fino alla firma dell'accordo. Poi, presentarono un piano di risanamento al tribunale, che cedette loro le macchine come rimborso crediti. Pur non avendo studiato, gli operai si assunsero responsabilità da dirigenti e per tre anni lavorarono tutti anche oltre l'orario e con un salario minimo, in un primo tempo uguale per tutti. Oggi, la cooperativa catalana Mol-Matric occupa 5.000 mq. nella zona industriale di Barbera del Valles e ha un volume d'affari di 5 mln di euro l'anno; ha 45 dipendenti pagati secondo una scala che dà all'amministratore (eletto) il triplo degli operai. Con investimenti in macchinari di oltre un 1 mln di euro, i soci intendono far fronte alle delocalizzazioni verso l'Europa dell'est, che minacciano il settore spagnolo dell'automobile. Hanno inoltre differenziato l'attività nella carrozzeria dei vagoni ferroviari e nella lavorazione dei generatori di eolico. Quella azienda non è un caso isolato in Spagna: all'inizio degli anni '80, furono recuperate almeno 38.500 posti di lavoro nel paese – circa 6.000 soltanto nei Paesi baschi e 7.000 in Catalogna (cfr.: C. Raimbeau, “Un'altra Europa, quella delle imprese recuperate”, Le Monde Diplomatique, dic. 2007).

GRAN BRETAGNA - Nell'ex regione mineraria del Regno Unito, la"Cynon Valley", nel sud del Galles, Tower Colliery non è solo l'ultima miniera superstite di quella che fu la principale industria britannica, ma anche l'unica in Gran Bretagna, in Europa e probabilmente nel mondo intero che è stata rilevata dai minatori e gestita con profitto. È l'orgoglio degli abitanti della regione che, con il loro sostegno ai minatori messi in aspettativa nel 1993, hanno anch'essi contribuito al successo di questa storia straordinaria. E ne hanno avuto il giusto profitto: attualmente, l'impresa patrocina innumerevoli attività cittadine e regionali, dalla banda alla squadra di rugby, dalla scuola d'equitazione per disabili agli orfanotrofi. Riconvertito in amministratore delegato della Srl Tower Colliery, Tyrone O’ Sullivan, ex segretario del locale sindacato dei minatori; da quattro anni attua con successo una co-gestione con i suoi compagni, diventati azionisti della miniera. “Noi dimostriamo al mondo intero che gli operai sono capaci di gestirsi i propri affari e che il socialismo può funzionare”, ci spiega l'ex minatore, elettricista di formazione, che ha visto il padre e il nonno morire in miniera. I profitti vengono reinvestiti per migliorare le condizioni di lavoro e sviluppare la miniera. E la miniera, in effetti, dà profitti. Contrariamente a tutte le previsioni dei conservatori sulla sua non-redditività, i quattrocento minatori-azionisti di Tower Colliery dimostrano che il carbone, pur non sovvenzionato e venduto ai prezzi del mercato mondiale, resta competitivo. “Ne esportiamo anche il 30 % in Francia, Belgio e Irlanda”, ci dice O’ Sullivan, prima di raccontarci come instancabilmente fa da quattro anni la storia del riacquisto della miniera da parte dei minatori licenziati. Quando Margaret Thatcher arriverà al potere, nel 1979, avrà un'unica ossessione: prendersi la rivincita sui minatori e sul loro sindacato, considerato il più estremista del paese. Come? Smantellando l'industria mineraria e sostituendola con il gas e l'energia nucleare. Poco importa se il gas costa il 30 % in più del carbone o se gli investimenti nel nucleare assorbono somme gigantesche. Si tratta di una battaglia politica, più che economica: e la Thatcher la vincerà. Nel 1984-85, il lungo sciopero dei minatori si concluderà con una sconfitta. Per vincere, il governo aveva utilizzato ogni mezzo a sua disposizione, dalla stampa di Murdoch ai servizi segreti britannici. Tra il 1983 e il 1990 le miniere chiudevano una dopo l'altra; e il numero dei minatori passava da 181.000 a 65.000. Con il governo di John Major, il programma di chiusura dei pozzi andava avanti. Nell'ottobre 1992, Michael Heseltine, ministro dell'industria, annunciava l'imminente chiusura di 31 delle cinquanta miniere rimaste della società nazionale British coal e il licenziamento immediato di 30.000 minatori. Stava scoccando l'ora di Tower Colliery, ultima miniera ancora attiva nel sud del Galles. Per raggiungere il suo obiettivo, il governo nell'aprile del 1994 fece la seguente offerta: tutti i minatori che avessero accettato la chiusura della loro miniera entro due giorni, avrebbero ricevuto 9.000 sterline (allora, circa 27 milioni di lire), più le regolari indennità di licenziamento. Cioè un totale di 18.000 sterline, una somma decisamente allettante per un minatore indebitato. Insieme ad altri dirigenti sindacali, Tyrone O’ Sullivan cerca di mobilitare i suoi colleghi contro quest’offerta. Ma, alla fine, solo in trenta la rifiuteranno. Sembra la fine. Accade però che uno dei minatori lancia la proposta: “E se comprassimo noi la miniera?”. Bisognava convincere gli altri a reinvestire in questa impresa circa la metà delle loro indennità di licenziamento. 180 minatori aderiscono al progetto immediatamente. Poi saranno 239. Nel giro di qualche giorno veniva raccolta nella cassa comune una somma considerevole. Il 31 dicembre 1994, la miniera diventa dei minatori. In poco tempo, la Tower Colliery Srl realizzava un utile di 90.000 sterline, contraddicendo tutti gli studi che prevedevano la non-redditività della miniera. Perché l'antracite, in effetti, si vende bene: da subito sono cominciate a fioccare le ordinazioni. Nei primi tre anni i profitti hanno raggiunto il 20% del fatturato. E la produzione è passata dalle 440.000 tonnellate del 1995 alle 600.000 del 1998. Quanto ai 239 lavoratori iniziali, oggi sono più di 400. In questa impresa atipica si può lavorare solo dopo aver acquistato una partecipazione azionaria di 8.000 sterline. Ma, in questa regione povera, con un tasso di disoccupazione che supera il 20%, sono in pochi a disporre di una tale somma, e chi vuole partecipare deve spesso chiedere un prestito alle banche. Per limitare i rischi di speculazione e di influenza esterna, il “collettivo di riacquisto” ha deciso che le azioni potevano essere vendute solo ai lavoratori della miniera. Chi va in pensione può conservare le sue quote, ma perde il diritto di voto nelle quattro assemblee annuali degli azionisti che, tra l'altro, nominano i sei direttori. Ma questa Srl costituita da lavoratori-azionisti non avvalora l'idea di capitalismo popolare, cara a Margaret Thatcher? O'Sullivan respinge l'obiezione. “Noi dimostriamo solo che i lavoratori sanno gestire una miniera meglio di quanto facesse la vecchia impresa nazionale e di quanto facciano i moderni capitalisti. La nostra esperienza dovrebbe fare scuola”. A Tower Colliery, comunque, non è tutto rose e fiori. Certo, i salari e le condizioni di lavoro sono buoni, il rapporto tra la remunerazione di un direttore e quella di un minatore (3.500.000 di lire al mese) è solo di 2 a 1, sono previsti 36 giorni di ferie pagate l'anno; in caso di malattia lo stipendio continua a essere versato e il tasso d'assenteismo è vicino allo zero. Ma sorgono comunque dei conflitti, come in tutte le comunità. “Le discussioni più accese riguardano gli straordinari. Alcuni anche tra i direttori cercano di farne il più possibile, in modo da aumentare i guadagni”, spiega Davis, presidente del sindacato dei minatori di Tower Colliery. Il dibattito sindacale è sempre vivace. Vi sono tre distinte organizzazioni a tutela degli interessi delle diverse categorie di lavoratori: un sindacato dei minatori, uno dei quadri intermedi, uno dei quadri superiori. O'Sullivan reclama la necessità della presenza dei sindacati nell'impresa co-gestita. “Chi sta in alto ha sempre la tendenza ad accaparrarsi potere e privilegi. È quel che mostrano tutte le rivoluzioni. Chi sta in basso deve quindi esercitare un continuo controllo sui dirigenti”. Lui stesso si propone di riscendere nella miniera una o due volte alla settimana, per raggiungere “chi sta in basso”. (Cfr.: B. Pètzold “La rivincita dei minatori a Tower Colliery”, Le Monde Diplomatique, lug. 1999)